a cura di Sonia Zarino (architetto, urbanista)

mercoledì 2 gennaio 2013

L’evoluzione rurale - urbana in Italia - Ornello Vitali - Milano 1983

di Ernesto Frasca Polara

A causa delle profonde trasformazioni, avvenute in Italia, inerenti le classi sociali e i settori dell’economia, la struttura della popolazione ha subito un processo di trasformazione che si identifica con l’urbanizzazione. A tal proposito verranno riportati alcuni concetti, e definizioni, basilari per la comprensione del "fenomeno urbanizzazione".
1.1 - Definizione rurale-urbano
La definizione demografica di <<urbanizzazione>>, se applicata ai periodi preindustriali, appare pressoché ineccepibile. Esiste, in effetti, una frattura netta nei ruoli e nei modi di vita delle città e delle campagne. Le modificazioni che si producono al riguardo, anche a motivo della scarsità e tenuità delle interazioni, appaiono mediamente assai lente, questo accade soprattutto perché la crescita della tecnologia, o non avviene, o si realizza stentatamente. A mano a mano che si sviluppano i traffici e che, nei secoli successivi, comincia a realizzarsi la rivoluzione industriale, sino alla odierna diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, qualcosa muta per quanto attiene all’urbanizzazione. Questa, seppur si realizza ancora per meccanismi autopropulsivi su alcuni territori, a volte, a causa del notevole aumento del reddito pro-capite e dei surplus propri degli agglomerati urbani, si realizza per esportazione e diffusione dei loro modelli di vita. I surplus industriali portano a maturazione procedimenti di creazione o di potenziamento di altri Centri, che, in misura più o meno rapida, si avviano ad assumere caratteristiche urbane. Pertanto lo schema odierno di urbanizzazione non è più quello della città che influenza i borghi vicini e che svuota il contado, ma deve prevedere anche forze che agiscono in senso inverso, e che danno luogo, soprattutto per effetto dello sviluppo tecnologico, alle città - regioni. Per misurare, come questo processo si realizzi e con quale velocità, occorre fare riferimento a caratteristiche sociali e a strutture complesse, proprie dei punti di concentrazione della popolazione, che siano misurabili, e che esprimano un concetto di urbanizzazione come <<caratteristica intrinseca della società totale>>. Lo studioso Wirth ha definito la città come <<un’insediamento relativamente vasto, denso e permanente di individui socialmente eterogenei>> ed ha dato luogo ad uno studio dell’<<urbanizzazione come modo di vita>>. Per procedere nello studio è necessario chiarire il metodo di analisi che si intende adottare e quali caratteristiche assumere, come rappresentative dell’esistenza del fatto urbano.

Il VITALI ha ritenuto di dover ricorrere al metodo statistico, per sua natura adeguato alla problematica in questione, e che consente di sintetizzare oggettivamente i multiformi aspetti della realtà urbana. Per ogni singola unità territoriale considerata (il Comune), si è ritenuto di poterne caratterizzare il modo di vita rurale o urbano basandosi sulla diversa intensità e/o presenza delle seguenti caratteristiche:
a) attività extragricole;  b) terziarietà;  c) grado di istruzione;  d) stato delle abitazioni;  e) densità;  f) concentrazione della popolazione.

La ricerca condotta si compone di due parti: la prima ha avuto come obiettivo finale quello di determinare la classificazione delle singole unità territoriali, considerate a secondo delle caratteristiche urbane o rurali, alle epoche dei censimenti del 1951, 1961 e 1971; la seconda parte, esamina i risultati ottenuti, spingendo l’analisi sino al 1977, in funzione di caratteristiche demografiche, altimetriche e socio-economiche, a diversi livelli territoriali. Lo studio condotto dal Vitali si ripropone di misurare l’evoluzione rurale - urbana realizzatasi nel nostro Paese, in un contesto preciso che è quello proprio delle società occidentali industrializzate nella seconda parte del ventesimo secolo. Tonnies, studiando i diversi tipi di relazione sociale, cioè <<i rapporti di affermazione reciproca>>, ha teorizzato una netta differenziazione tra <<comunità>> (Gemeinschaft) e <<società>> (Gesellschaft), la prima intesa come globalità compiuta di rapporti sociali; la seconda, configurata come organismo in cui gli uomini vivono separatamente, nonostante tutti i legami. È evidente che il rapporto sociale ideale teorizzato per la comunità è quello che più si avvicina ai modi di vita rurali, mentre quello relativo alla società trova la sua più compiuta realizzazione nelle realtà urbane.  Ed è proprio questa l’interpretazione che venne data all’opera del Tonnies, che venne riscoperta negli Stati Uniti quando entrò in crisi il concetto di <<rurbanization>>. In sintesi, il concetto di <<rurbanization>> stava ad indicare quel processo di rielaborazione dei modi di vita urbani nel quadro rurale, ed interpretava i mutamenti, non come un rapporto a senso unico, causati dall’urbanizzazione, ma sottolineava sia il carattere autonomo del processo stesso, sia il ruolo primario che in esso mantenevano gli elementi rurali. Le novità introdotte nelle campagne ebbero effetti così dirompenti che risultò sempre più difficile pensare alle comunità come ad organismi che riplasmavano le tendenze di tipo esogeno, che si andavano rapidamente affermando nella società globale. La crisi del concetto di <<rurbanization>> comportò una risposta alla tipica proposta del Tonnies, che consistette nel riaffermare che i due concetti di <<comunità>> e <<società>> indicavano categorie concettuali antitetiche, e che esprimevano una chiara distinzione tra due modelli sociali alternativi. Si pensò, allora, di considerare i due termini Tonnesiani come gli estremi di un continuum rurale-urbano. Con l’andar del tempo, lo schema del continuum rurale-urbano, che era sorto come tipologia di sistemi sociali, venne impiegato come strumento interpretativo del corso storico unilineare, attraverso cui si sviluppa la società, ampliandone così il significato originario. Tale utilizzazione dello schema del continuum dette luogo a non poche dispute, ed alcuni studiosi ne hanno sottolineato i limiti, come strumento interpretativo dei mutamenti che si originano nelle aree rurali. Il problema è che lo sviluppo delle società industrializzate è tanto complesso da non poter essere spiegato come movimento lineare di transizione dalla <<comunità>> alla <<società>>, ma esso comporta successive integrazioni di aree diverse, che possono dar luogo a <<villaggi urbani>> od anche a <<villaggi metropolitani>>. Alla dicotomia rurale-urbana ed anche alla concettualizzazione del continuum si è andata sostituendo la nozione di sistema sociale, soprattutto ad opera del Parsons. Egli, in effetti, tratta concetti costruiti in relazione allo schema di una teoria generale, e, pertanto, non facilmente riferibili ad altri contesti. La prima impostazione, relativa allo studio del fenomeno urbano, fu di natura statistica nella seconda metà del secolo trascorso, e si traduceva nella fiducia di poter fondare una scienza fisica esatta dei comportamenti umani. Facendo riferimento alla realtà italiana, ai cultori statistici, risultava quasi sicuramente sconosciuta l’opera del Tonnies ed anche le ricerche che da essa si erano originate. Va sottolineato che i problemi che agitavano l’orizzonte italiano negli anni trenta, sebbene connessi con l’urbanizzazione che andava accentuandosi, erano di altra natura. Sono da considerare gli aspetti demografici, che, tuttavia, presentavano una rilevanza politica immediata. La popolazione, impossibilitata all’emigrazione transoceanica aveva accentuato i movimenti interni, lasciando in massa le campagne e dirigendosi verso le città alla ricerca di un lavoro, come avevano chiaramente mostrato i risultati del censimento demografico del 1931. La concezione dicotomica rurale-urbana, prevalse sino all’inizio della seconda guerra mondiale. Una svolta al riguardo fu quella iniziata da Somogyi che, di fronte alla complessità del problema, preferì ricorrere a criteri che consentissero una classificazione generale. Essa risultava atta a comprendere un’ampio ventaglio di realtà, e sganciata dal vincolo di un’alternativa dicotomica, seguendo le tendenze che interpretavano le realtà dell’urbanizzazione, mediante lo schema del continuum rurale-urbano. A questo punto bisogna chiarire che non vi è un accordo totale fra gli studiosi sul significato delle parole "urbanesimo" e "urbanizzazione". La Federici usa i due termini in senso demografico, attribuendo all’urbanesimo il significato di <<flusso che si dirige verso i centri urbani>>, e distinguendo all’interno di tale definizione un urbanesimo in senso stretto, che indica lo spostamento della popolazione verso i centri urbani maggiori; ed un urbanesimo in senso lato, che può definirsi come l’insieme degli spostamenti che si generano dalle campagne verso i centri urbani in genere. Entrambe le misure sono a carattere dinamico. Il termine urbanizzazione verrà impiegato nel significato proposto dalla Federici.
1.2 - La classificazione del Vitali  Il compito della ricerca del Vitali è quello di tentare di misurare il grado di diffusione dell’urbanizzazione. A tale scopo, egli ritiene che la misura più precisa, anche se imperfetta, passa ancora per la classificazione dei singoli comuni. Se avessimo dati più dettagliati (per frazioni geografiche),sarebbe possibile stabilire ritagli territoriali maggiormente corrispondenti alle realtà urbane. Né si potrebbero considerare unità territoriali più ampie, di norma meno omogenee dei comuni, per determinare le quali occorrerebbe uno sforzo di ricerca interdisciplinare e coordinato.  Appare necessario utilizzare le circoscrizioni comunali, considerando gli indicatori impiegati per caratterizzarle e facendo riferimento in particolare a quelli che misurano solamente generici aspetti sociali, assai indirettamente connessi con il manifestarsi del fatto urbano: quelli dell’istruzione e dello stato delle abitazioni. L’impostazione adottata per classificare i comuni in urbani o rurali fa ricorso al metodo tipologico ideato da Max Weber.
Gli indicatori adottati per stabilire la tipologia dei comuni sono sei:
1) percentuale di popolazione attiva extragricola sul totale degli attivi;  
2) incidenza percentuale della popolazione attiva nel settore dei servizi sul complesso della popolazione residente comunale;  
3) quota percentuale della popolazione munita almeno di titolo di studio di scuola media superiore, sul totale della popolazione che ha compiuto il ventunesimo compleanno;  
4) densità media di popolazione (ab/kmq);  
5) percentuale delle abitazioni fornite di acqua potabile di acquedotto e/o di servizi igienici al loro interno, sul totale delle abitazioni comunali;  
6) incidenza percentuale della popolazione che vive nel centro (o nei centri) del comune superiore ai ventimila abitanti sul volume complessivo della popolazione comunale residente.

Lo schema adoperato è quello del continuum rurale-urbano, la tipologia che ne consegue prevede quattro categorie di comuni:
1) rurali;  2) semirurali;  3) semiurbani;  4) urbani;

Esse costituiscono altrettante tappe sulla strada verso l’urbanizzazione, nel cui ambito dovrebbero classificarsi i comuni italiani al 1951, 1961 e 1971, in base alle caratteristiche medie degli indicatori che li caratterizzano. Bisogna precisare che gli indicatori prescelti colgono solamente alcuni degli importanti aspetti differenziali fra realtà urbane e rurali, e ne trascurano altri. Passiamo ora all’esame dei risultati ottenuti, a livello nazionale, sia per quanto attiene alla classificazione in sé dei comuni, a seconda delle caratteristiche urbane e rurali, sia per quel che riguarda le distribuzioni di taluni aggregati in funzione delle modalità in cui si articola la classificazione stessa (popolazione, superficie, densità, classi di ampiezza demografica, zona altimetrica). Al 1951, i comuni italiani apparivano per il 74% rurali, per il 20% semirurali, mentre il restante 6% costituiva l’insieme dei comuni di tipo urbano. Al 1961, i mutamenti realizzatisi nel Paese si riflettono nel fatto che oltre duemila comuni passano da rurali a semirurali, e poco più di 700 comuni rurali divengono semiurbani e la popolazione che risiede nei comuni di tipo urbano supera quella dimorante nei comuni di tipo rurale. Al 1971, infine, ancora il 56,4% dei comuni risulta di tipo rurale, ma il confronto con il 1951 dimostra l’entità della grande trasformazione realizzatasi. Se si esaminano i dati di popolazione la contrazione appare ancora più netta: i residenti nei comuni rurali sono 12 milioni contro i 24 milioni del 1951. Il tasso continuo di sviluppo medio annuo differenziale rurale-urbano, nei due periodi 1951-61 e 1961-71, mostra che, contrariamente a quanto accaduto, in media per 110 Paesi esaminati dall’ONU, lo sviluppo differenziale urbano-rurale è andato accrescendosi nel tempo all’aumentare della quota di popolazione italiana strettamente urbana. La distribuzione congiunta dei comuni e delle relative popolazioni, per zona altimetrica e grado di urbanità e ruralità, presenta queste situazioni strutturali: gli insediamenti urbani risultavano inizialmente più frequenti in pianura che nelle altre zone altimetriche e tale caratteristica permane anche al 1971. L’urbanizzazione si è estesa anche alle zone collinari e montane. La considerazione delle densità di popolazione per zona altimetrica indica che i territori litoranei e quelli di pianura sono i più popolati. Infine vengono poste in relazione la zona altimetrica, l’ampiezza demografica ed il grado di urbanità e ruralità: i comuni rurali prevalevano al 1951, quale che fosse la zona altimetrica considerata, nella classe di ampiezza inferiore a 20mila abitanti. Nei comuni più grandi le distribuzioni percentuali, secondo le caratteristiche urbane e rurali, apparivano più equilibrate. Al 1971, invece, i comuni rurali appaiono scarsamente rappresentati anche nell’ambito dei piccoli comuni, nei quali prevale la popolazione semirurale e semiurbana; nei comuni con oltre 20mila abitanti risulta notevolmente rappresentata la popolazione urbana. Il confronto fra Settentrione e Mezzogiorno mostra che, per quanto attiene al numero degli insediamenti comunali, la situazione è piuttosto diversa.
Il Mezzogiorno presenta l’86% di comuni strettamente rurali, mentre tale incidenza è limitata nell’Italia settentrionale al 65%, ma ciò che contraddistingue le due ripartizioni sono le proporzioni dei comuni semiurbani (7% nel Nord e 2,7% nel Sud). In termini di popolazione le differenze appaiono meno pronunciate, nel Nord, infatti, i livelli superiori della scala dell’urbanizzazione venivano raggiunti anche da comuni di media ampiezza demografica, al contrario di quanto accadeva nel Mezzogiorno. L’evoluzione che si registra al 1961 e al 1971 pone in evidenza che il Settentrione ha raggiunto i maggiori ritmi nella realizzazione di realtà urbane rispetto al Centro e soprattutto al Mezzogiorno. Tuttavia la situazione della ripartizione meridionale appare, nell’ultimo periodo di riferimento, sostanzialmente mutata poiché comincia a risultare consistente l’incidenza dei comuni semiurbani sul complesso di quelli del Mezzogiorno. Dall’esame dei valori ripartizionali dei tassi continui medi annui di sviluppo differenziale urbano-rurale si desume che lo sviluppo urbano è risultato più dinamico di quello rurale, soprattutto nel secondo dei decenni considerati (1961-71), quale che fosse la ripartizione presa in esame. Per quanto attiene l’ampiezza demografica media comunale è il Centro che manifesta valori più rilevanti, seguito dal Mezzogiorno e dal Nord. Le densità medie, invece, risultano di gran lunga maggiori nei comuni del Triangolo Industriale, e in generale, nel Nord rispetto al Centro e al Mezzogiorno. Tali diversità appaiono sensibili, in particolare, fra Mezzogiorno e Italia settentrionale, anche per singola categoria di comuni. Le zone di più alto sviluppo del reddito risultano, nella realtà italiana, quelle più densamente popolate. La ricerca continua con l’osservazione della diffusione dei modi di vita urbani nelle regioni e nelle province. Le regioni non presentano ordini di grandezza omogenei, quanto ad ammontare di popolazione, estensione territoriale, ecc., e tale particolarità si riproduce nelle province.

Per quanto attiene le regioni, la Liguria, la Campania ed il Piemonte al 1971 presentano le massime incidenze percentuali di popolazione urbana, mentre il Molise, la Basilicata, l’Umbria e la Calabria toccano le quote minime. Una considerazione globale conferma il tendenziale ritardo di quasi tutte le regioni meridionali nei confronti di quelle settentrionali, che peraltro nel tempo risulta attenuato ed un comportamento eterogeneo delle regioni dell’Italia centrale. La Lombardia è la regione che presenta il più elevato grado di urbanizzazione, seguita a distanza dal Lazio e poi da Campania, Piemonte e Sicilia. L’analisi riguardante le province si articola su vari piani. Al 1951, 44 province erano prive di comuni classificati urbani e, al 1961, ben 24 rimanevano nell’identico stato. Si sono poi effettuate speciali elaborazioni tendenti a determinare la distribuzione congiunta delle province, a seconda dell’incidenza percentuale di popolazione non urbana, classificata come: elevata, predominante, media e bassa, e a seconda delle incidenze di popolazione urbana (con esclusione del capoluogo). Da tale analisi emerge che le differenze fra il Centro ed il Mezzogiorno appaiono modeste, per quanto riguarda il numero e l’ammontare della popolazione delle province ad "urbanizzazione diffusa", mentre il Nord risulta più avanti lungo questa traiettoria. Il nucleo essenziale della ricerca condotta trova un suo completamento in due aspetti: a) il ruolo giocato dai comuni capoluogo nella grande trasformazione della società italiana; b) la relazione media esistente fra grado di ruralità e urbanità e grado di industrialità, nei comuni italiani, alle epoche dei tre ultimi censimenti. Va chiarito che i comuni capoluogo costituiscono un collettivo eterogeneo per ammontare di popolazione, superficie territoriale, densità, modi di insediamento demografici. L’analisi della classificazione dei capoluoghi, in funzione delle caratteristiche urbane e rurali, alle tre epoche censuarie, non convalida del tutto l’affermazione che essi abbiano costituito l’ossatura urbana italiana. Pur essendo complessivamente aumentata l’incidenza della popolazione residente, nei comuni capoluogo, sull’ammontare demografico nazionale nel periodo 1951-77, si assiste ad una sua lieve contrazione dal 1971 al 1977. In questo contesto è il Settentrione che ha mostrato una anticipata tendenza al rallentamento e poi all’inversione di segno dei ritmi di sviluppo. Per la prima volta, dall’unificazione d’Italia, durante il sessennio 1971-77, l’accrescimento percentuale di popolazione dei comuni capoluogo è risultato inferiore a quello dei comuni non capoluogo. L’analisi per grandi ripartizioni mostra comportamenti non omogenei che portano a concludere come, specialmente nel Mezzogiorno, i comuni capoluogo non abbiano costituito che debolmente i poli dell’emigrazione primaria. Il potere di richiamo dei capoluoghi a più antica urbanizzazione, infatti, è andato attenuandosi dal 1951 al 1971, ed in molti casi, i tassi di attività sono diminuiti nel periodo 1961 1971. Per quanto riguarda l’analisi della relazione fra grado di urbanizzazione e grado di industrializzazione, può sostenersi che essa risulta assai stretta a livello nazionale. Al 1951, in tutte le ripartizioni, i tassi di attività industriali presentano valori massimi in corrispondenza dei comuni urbani, mentre essi risultano decrescenti a mano a mano che si scende sulla scala dell’urbanizzazione. Si registra una inversione nel caso dell’Italia settentrionale e centrale, dato che il tasso di attività industriale risulta mediamente più elevato per i comuni semiurbani rispetto a quelli urbani. Nel Mezzogiorno permane uno stretto ordine gerarchico, ma i livelli di industrializzazione risultano notevolmente inferiori a quelli del Settentrione e dell’Italia centrale.

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