Un articolo che focalizza l'attenzione sull'uso dello spazio pubblico, ed in particolare della piazza, che nata per accogliere e favorire l'incontro tra le persone e le loro attività culturali ed economiche, le relazioni, lo scambio, si è trasformata negli ultimi decenni in spazio per la sosta dei veicoli, relegando le persone ai margini, negli interstizi tra un posto auto e l'altro. L'articolo parla di Milano, zona Bovisa, ma esempi simili di piazze trasformate in parcheggi li troviamo in tutta Italia, e anche nei più bei centri storici.
di Renzo Rimboldazzi
pubblicato su arcipelagomilano.org il 6 gennaio 2015
La chiamano piazza e invece è un parcheggio. Un’imprecisione che non è
solo lessicale perché in realtà esprime bene una certa idea di spazio
pubblico radicata a Milano. Non luogo dell’abitare civile come ancora se
ne trovano in molte città d’Italia e d’Europa. Non scena della vita
pubblica o ambito urbano in cui la collettività, una classe sociale, il
potere politico o quello religioso esprimono attraverso l’architettura
la loro magnificenza così com’è stato per secoli nel vecchio continente.
Ma semplicemente uno spazio dove non si è costruito, sistemato alla
bell’e meglio e subito abbandonato a se stesso, senz’altro scopo che
consentirvi il parcheggio delle auto.
Stiamo
parlando di Piazza Emilio Alfieri alla Bovisa – il quartiere di Olmi,
dei gasometri di Sironi, dei poveri cristi della Gilda testoriana – ma
potremmo parlare di molti altri luoghi di questa città che vivono la
stessa misera condizione. Alla piazza che Milano ha dedicato
all’ostetrico e ginecologo che nella prima metà del XX secolo “si è
occupato dei problemi sociali relativi all’assistenza alla maternità”
(Enc. Treccani) ci si arriva comodamente prendendo un qualsiasi treno da
Cadorna.
Il percorso è breve e dal finestrino si possono rivedere da insolite
prospettive alcune testimonianze della modernità milanese: la torre
Branca al Parco Sempione – progettata da Gio Ponti e Cesare Chiodi nel
1933 che Edoardo Persico definì «né architettura pura, né pura
ingegneria [ma] limite di un gusto in cui si trovano risolte
armoniosamente tutte le premesse pratiche ed estetiche di un’epoca»; la
casa in via Randaccio, anche questa disegnata dall’autore del Pirellone
(con Emilio Lancia) per la sua famiglia a metà degli anni venti; oppure
la lunga lama bianca del palazzo Ina in corso Sempione progettato da
Piero Bottoni e realizzato nel secondo dopoguerra.
Lungo la ferrovia e sotto i ponti, poi, non è così raro scorgere
quelle che alcuni raffinati (e fin troppo realisti) interpreti della
contemporaneità fanno rientrare tra le forme dell’abitare temporaneo:
tremendi ripari di fortuna di barboni o nomadi di tutte le età, anche
bambini, la cui situazione precaria – indegna di qualsiasi società
civile – ha poco a che fare con l’abitare e spesso, ahimè, nulla di
temporaneo.
In un attimo si arriva in Bovisa. Le grandi porte vetrate della
stazione si aprono su un piazzale, realizzato sopra ai binari con un
mare di masselli autobloccanti, qualche fioriera con le stesse essenze
di quelle degli autogrill e una certa quantità di automobili e motorini
parcheggiati. Da qui vedi tanto cielo e, di fronte un po’ a destra, la
torre Isozaki venuta su in men che non si dica sull’area dell’ex Fiera
campionaria che, in linea d’aria, non è poi così lontana. Nessuno si
ferma lì, sotto la grande pensilina, se non per pochi attimi per cercare
di capire dove andare. Tutti svoltano immediatamente a destra o
sinistra (nel nostro caso a sinistra) e, scendendo da una scala, vanno
dritti al loro destino.
Proprio questa scala è uno dei principali punti di accesso alla
piazza ma già da questo elemento architettonico capisci che aria tira.
Inutile farsi venire in mente tutte le bellissime scalinate che colmano i
dislivelli di Roma, Parigi o Budapest. Meglio scordarsi gradini
levigati dal tempo, forme sinuose e più o meno elaborate balaustre
marmoree. Meglio dimenticarsi anche l’educazione con cui generalmente vi
introducono in un luogo, come ve lo presentano. Quella che c’è in
Bovisa è una specie di rampa per quadrupedi di grossa taglia, con
gradini bassi e distanti a tal punto da indurre un passo goffo e
sgraziato e con un parapetto di un verde stridulo in tubolare metallico
che parrebbe più adatto a una stalla.
Da qui, quotidianamente e a tutte le ore del giorno, frotte di
studenti del Politecnico arrivano in piazza Alfieri, l’attraversano
incuranti della rigida articolazione dei percorsi viabilistici e
pedonali e, giustamente, se ne vanno oltre, verso quel bellissimo campus
dell’ateneo insediato in quelli che furono gli uffici e gli
stabilimenti della Ceretti & Tanfani, quelli delle funivie.
D’altra parte, che fare qui? La piazza, dicevamo, è a tutti gli
effetti un parcheggio. Con le sue ordinate corsie di asfalto, i
marciapiedi stretti che nessuno usa, file di lampioni – a uno dei quali è
rimasto attorcigliato il fil di ferro dei fiori lasciati per quel
vigile urbano travolto con la sua bicicletta da un suv – e un sacco di
spazi per le auto pavimentati con quei graticolati di cemento dove
l’erba non cresce mai ma in compenso trattengono benissimo mozziconi,
cartacce e tappi delle bottigliette di plastica. In un angolo, chissà
per chi, hanno messo da poco un paio di panchine, un monitor spento che,
come quelli delle stazioni, forse trasmetterà pubblicità e previsioni
del tempo, e un lampione nero: un altro, diverso da quelli che popolano
la piazza, che di notte proietterà la sua luce vivida e fredda solo in
quell’angolo a sottolinearne un’importanza che non c’è. Tutt’intorno, a
parte l’umanità di alcune case modeste (e tuttavia urbane) sulla via
Bovisasca, l’irrisolto, l’incompiuto, l’indifferente al luogo e alla
vita.
A partire dalla stazione che volge a questo spazio pubblico non il
suo volto ma il suo fianco: un susseguirsi di pannelli prefabbricati,
con aperture orizzontali, verticali e perfino tonde: grandi oblò su cui
sono stati riadattati normali serramenti rettangolari in alluminio
anodizzato, di quelli che ti fanno comprendere bene perché Woody Allen,
nel suo Harry a pezzi del 1997, collochi l’inventore di questo
materiale tra i dannati dell’inferno. A parte le finestre, nessuna
relazione con la piazza, neanche un ingresso secondario, uno straccio di
passerella di collegamento con l’altro insediamento del Politecnico al
di là dei binari, nulla. Anzi, ad accentuare la separatezza tra questo
luogo poco urbano e un’architettura che fa la periferia ancor più
periferia di quel che è c’è perfino un’area recintata per i rifiuti e un
corpo basso di locali tecnici con un lungo muro cieco su sui
campeggiano scritte di matrice anarchica e, in un angolo, una lapide
dedicata a Maria Luisa D’Amelio, diciassettenne massacrata da quelle
parti nella seconda metà degli anni ottanta.
Gli altri due lati della piazza sembrano lì in attesa di qualcosa
che, forse per fortuna, non succede mai. Da una parte c’è un magazzino
in mattoni con la scritta “Affittasi” che per un po’ è stato uno spazio
teatrale; a fianco una casa famiglia con un asilo nido “privato
multietnico”, precisa la targa sul pilastrino; poi l’imbocco di una via
che porta dritta alla nuova sede di Telelombardia che riconosci per
l’alto traliccio pieno di antenne; e infine, dietro grandi manifesti
pubblicitari, un tumolo di macerie ricoperte di erbacce: un moderno
sepolcro di quel bellissimo esempio di archeologia industriale che era
l’ex saponificio Sirio frettolosamente abbattuto una decina di anni fa,
con la sua ciminiera e un pezzo di identità del quartiere, nonostante
una petizione popolare e una mozione al Consiglio comunale.
Sull’altro lato solo un grande prato recintato con strutture provvisorie che hanno un che di checkpoint
militare. Da qui la vista può correre fin laggiù, dove c’è un altro
edificio simbolo della Bovisa industriale: quello della Fratelli
Livellara, da alcuni erroneamente attribuito a Sant’Elia e collocato
proprio dove la via Bovisasca traccia un’ansa che pare quella di un
fiume. Alla sua sinistra, si scorge l’area dei gasometri: la cosiddetta
“goccia” racchiusa dall’anello dei binari, di cui una Milano povera di
idee con un po’ di respiro sembra non saper bene che farsene, tanto che –
c’è da scommetterci – quella che potrebbe essere un’occasione storica
per la città finirà col soddisfare i soliti (e insaziabili) appetiti
speculativi.
A destra della Livellara, invece, spiccano – sullo sfondo di un
tessuto frammentato fatto di case a ringhiera, officine, orti e giardini
– alcune torri residenziali alte fino a quindici o venti piani, una
accanto all’altra, e alcuni edifici per uffici dai colori vivaci e con
insoliti corni sulla copertura. Una quantità rilevante di metri cubi di
cemento buttati lì da poco tempo che testimonia della nostra incapacità
di plasmare nuovi luoghi urbani con quel minimo di coerenza formale e
funzionale che viene solo dall’arte di ascoltare e interpretare i
contesti.
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