Abbiamo recentemente parlato di sprawl, come di una possibile degenerazione del fenomeno di espansione dell'area urbana: un caso emblematico lo troviamo in Veneto, trasformatosi su vaste aree in una sorta di “nebulosa insediativa” (D. Luciani) caotica e, appunto "inconsapevole", con gravi ripercussioni sull'organizzazione dei servizi e della mobilità. Avere ben presenti questi fenomeni serve ad orientare il discorso sulle aree metropolitane per evitare gli errori dovuti alla mancanza di visione "territoriale" dello sviluppo e della pianificazione.
Dall’incubo di un policentrismo andato a male al sogno di un sistema a rete: le due varianti del campanile
di Francesco Jori
di Francesco Jori
«Una metropoli inconsapevole» è la suggestiva definizione cui ricorre Gigi Copiello nel suo Manifesto per la metropoli Nordest (Copiello 2007) per fotografare lo stato attuale della (ex?) locomotiva d’Italia. Verrebbe da usare, più propriamente, il termine di sapore giudiziario “metropoli preterintenzionale”, considerando i guasti profondi arrecati al territorio (e alle relazioni che in esso si sviluppano) da almeno tre decenni di espansione selvaggia dell’edilizia industriale, commerciale e abitativa, che ha trasformato il tradizionale policentrismo di quest’area in un guazzabuglio informe e senza soluzione di continuità, con le relative e micidiali ripercussioni sul sistema della mobilità e sull’ambiente. E’ opportuno ricordare, a questo riguardo, che in origine il termine “policentrismo”, messo in campo per la prima volta negli anni Sessanta dal Comitato regionale per la programmazione economica (CEPRE 1968), sottendeva un giudizio sostanzialmente positivo sul modello di organizzazione territoriale, ritenendolo compatibile con lo sviluppo produttivo.
Una visione evaporata negli anni Ottanta, a seguito della proliferazione delle micro e mini imprese e dell’affermarsi dei distretti: dei 199 individuati dall’ISTAT a fini statistici in tutto il territorio nazionale, ben 34 (il 17 per cento) risultano localizzati in Veneto(1).
Il fenomeno viene tuttavia da più lontano, cominciando dal livello abitativo. Come documenta Anna De Angelini (2004), sono gli anni Sessanta e Settanta quelli del massimo spreco edilizio (con investimenti superiori a quelli medi nazionali e dello stesso Nordovest), diminuito poi di intensità anche per oggettiva tendenza alla saturazione del territorio. Oggi, «nei capoluoghi in particolare siamo ormai vicini all’azzeramento; malgrado il calo demografico, le abitazioni occupate continuano ad aumentare, a causa dei cambiamenti in atto nella struttura familiare, ma la crescita edilizia è sempre più contenuta» (De Angelini 2004 p.79). Lievitano per contro gli investimenti nell’edilizia industriale e commerciale: già negli anni Settanta il volume complessivo di fabbricati non residenziali aveva raggiunto quello delle abitazioni (circa 176 milioni di metri cubi); nel decennio successivo la tendenza si è accentuata, e negli anni Novanta il volume complessivo edificato è stato di 179 milioni di metri cubi per magazzini, capannoni e uffici, contro i 101 delle case. Al 1999, l’ammontare di fabbricati non residenziali progettati in Veneto rappresentava il 18 e mezzo per cento della produzione complessiva italiana, livello inferiore alla sola Lombardia. Con un addensamento in particolare nell’area centrale della regione, vale a dire il nucleo dell’area metropolitana concettuale che si vorrebbe estesa all’intero Veneto, magari con punte in Friuli, almeno fino a Pordenone, considerando l’omogeneità degli insediamenti.
E’ proprio questo “sviluppo inconsapevole” (o, appunto, “preterintenzionale”), ad avere letteralmente choccato Copiello e ad averlo spinto a scrivere il libro citato.
Dove l’autore, salito sul Monte Summano vicino alla sua Schio, confessa: «L’America avevo visto, altro che Venezia!» (Copiello 2007, p.93). Vale a dire un Nordest americanizzato, vittima di una sorta di Mc-donaldizzazione del territorio, ridotto ad una cattiva (perché caotica) riproduzione di Los Angeles. Una lettura meno emotiva ma proprio per questo ancor più impietosa viene proposta da Domenico Luciani: «Le forme assunte dalla diffusione dell’insediamento residenziale e ancor più industriale, e i modi assunti dalla mobilità nell’area veneta centro-orientale, sono arrivati al limite oltre il quale sono a rischio quei caratteri originari, quelle stratificazioni storiche, quei patrimoni dell’identità (urbana, paesaggistica, antropologica) che hanno reso possibile il decollo e accompagnato il travolgente sviluppo degli anni Sessanta e Settanta. Il bivio tra forzatura del limite o avvio di un altro processo (inizio di una riforma) appare ineludibile» (Luciani 2002, p.195). I dati portati da Luciani a sostegno di questo drastico giudizio sono eloquenti: nei vent’anni tra il 1961 e il 1981, hanno cambiato destinazione d’uso più aree agricole di quanto non fosse capitato nella storia dei due millenni precedenti. Il policentrismo si è fatto dispersione: dei 4 milioni e mezzo di persone che vivono oggi nei 580 Comuni veneti, più della metà (2 milioni e mezzo) risiedono in 533 Comuni con meno di 15mila abitanti.
E i veicoli a motore su gomma, che a metà del XX secolo erano poche decine per 1.000 abitanti, nella sola provincia di Treviso erano saliti a 290 nel 1977, e oggi sono più di 600.
Altro che città diffusa, premessa alla sognata area metropolitana grande quanto il Veneto: qui siamo in presenza di quella che Luciani definisce “nebulosa insediativa”, intesa come «un modo di vivere in una mobilità individuale nella quale macro-spostamenti e micro-spostamenti si aggrovigliano in uno spazio senza centro, in cui tutte le funzioni possono essere poste ovunque» (p.197), oltretutto in un contesto geografico, politico, economico e sociale atipico, in quanto privo di un capoluogo regionale riconosciuto.
E’ da questi limiti che occorre partire se si vuole ragionare di area metropolitana in termini di fattibilità e non di utopia. Le premesse, sulla carta, ci sarebbero, perché «il Veneto costituisce un’esemplare realtà territoriale di tipo policentrico, dove le funzioni direzionali ed economiche tipiche della grande città non sono concentrate in un unico agglomerato urbano, ma distribuite in più centri, di dimensioni ed importanza relativamente equilibrate» (INUV 2007), come sottolinea uno studio dell’Istituto Nazionale di Urbanistica di Venezia (2). Ma a questo si sono accompagnate fin qui «l’incapacità di governare lo sviluppo industriale e commerciale, l’inadeguatezza delle misure atte a controllare la diffusione insediativa nelle zone agricole, l’assenza di politiche urbane […]. Le fabbriche e i capannoni, la proliferazione delle zone industriali e commerciali, l’urbanizzazione spalmata sul territorio e l’esplosione del trasporto su gomma, hanno portato allo stravolgimento del paesaggio e dell’ambiente» (Gattei, Orlandin 2007).
C’è anche una sorta di certificazione europea della “debolezza metropolitana” del Veneto: nella mappa delle aree metropolitane europee di sviluppo (MEGA) elaborata da Eurostat, il Nordest è totalmente assente. Sono definite MEGA le più importanti aree urbane funzionali europee valutate in termini di popolazione, trasporti, occupazione industriale, turismo, conoscenza, funzione direzionale e funzione amministrativa. Su queste basi, Eurostat ha individuato 76 centri classificati in cinque categorie: nodi globali, motori d’Europa, MEGA forti, MEGA potenziali e MEGA deboli. L’Italia compare in questa cartografia con sei città:
Milano e Roma tra i motori d’Europa; Torino tra le MEGA forti; Bologna e Napoli tra le MEGA potenziali; Genova tra le MEGA deboli. Lungi dal risentire in qualche modo, sia pure di riflesso, degli influssi del pentagono forte europeo (Londra – Parigi – Milano – Monaco – Amburgo), il Nordest non conquista neppure un posticino nella fascia debole: da Milano e Bologna, muovendosi nella sua direzione, bisogna scavalcare il confine prima di trovare un’altra MEGA, sia pur debole (Lubiana). E solo di recente il Veneto ha ottenuto di venire inserito nella Carta Europea dell’ESPON (European Spatial Planning Observation Network), il documento comunitario che indica le aree metropolitane riconosciute all’interno della programmazione territoriale della UE.
Non è soltanto un problema di atipicità, e cioè di essere area diffusa anziché grosso centro urbano. Nell’Unione ci sono altre realtà simili, cioè di tipo policentrico, che hanno saputo costruire un’autentica area metropolitana mettendo assieme centri privi di una specifica città dominante: come il Randstad olandese (7 milioni e mezzo di abitanti, includendo Amsterdam, L’Aja, Rotterdam, Utrecht e altre realtà urbane minori), o la vecchia regione metallurgica Rhein-Ruhr in Germania, un aggregato di medie città tra cui Dortmund, per un totale di 13 milioni e mezzo di abitanti. Due realtà che presentano singolari e interessanti affinità con il Nordest, e il Veneto (con propaggine friulana) in particolare: la prima disposta ad anello attorno a un nucleo centrale e fortemente interconnessa da un efficiente sistema di trasporti urbani e regionali ben collegati con l’aeroporto di Schiphol e con le principali direttrici terrestri attorno al mare del Nord, mettendo in rete tutte le eccellenze settoriali; la seconda risorta da un processo di deindustrializzazione (affrontato soprattutto per ragioni di sostenibilità ambientale) di quella che era la prima regione industriale d’Europa, e riconvertita in nuove forme di sviluppo. La crisi che si è innescata nel modello di sviluppo nordestino, e le caratteristiche socio-economiche e geografiche dell’area impegnata tra l’altro in un delicato passaggio di fase, presenterebbero le condizioni per cercare di riprodurre in loco, con i dovuti adattamenti, questi casi virtuosi. Ma per costruire un’area metropolitana, che è sostanzialmente un sistema a rete, sono indispensabili le comunicazioni: materiali e immateriali, incluse quelle tra gli attori dello sviluppo, a cominciare da chi dovrebbe regolarne i processi.
La realtà si incarica di dimostrare ogni giorno, con brutale evidenza, che mancano i presupposti. Tra Verona e Trieste, i due estremi Est e Ovest della possibile area nordestina, ci sono 250 chilometri: pochi, sulla carta. Ma chi deve percorrerli in auto sa bene che gli ci vogliono, nella migliore delle ipotesi, almeno tre ore: variante peraltro rara, perché sono molto più frequenti i casi in cui la tangenziale di Mestre (non a caso definita “valico”, in attesa di diventare “passante”) allungano i tempi a dismisura. E se decide di affidarsi al treno, non gli va certo meglio: circa tre ore e mezza non con un vecchio accelerato, ma con un moderno intercity che tra l’altro, da Venezia in poi, effettua qualcosa come sei fermate. Velocizzare questi abissi spazio-temporali è pura utopia, se non altro per l’atavica vocazione nordestina ai campanili: guai a saltare anche una sola stazione.
Come dimostrano, più a sud, le indignate reazioni bi-partisan della classe politica e imprenditoriale di Rovigo alla decisione delle Ferrovie di abolire la sosta degli Eurostar nella città polesana, sosta che rappresentava un palese non-senso. Quanto alle comunicazioni tra gli attori dell’area, la situazione è se possibile ancora più sconfortante: non solo è pressoché impossibile trovare un minimo livello di concertazione interprovinciale, ma addirittura le difficoltà si riproducono e si acuiscono a livello locale. Come dimostrano, su piani diversi, le guerre intestine scoppiate all’interno delle associazioni industriali di Padova, Vicenza, Treviso e Rovigo per il rinnovo delle presidenze; la fatica di CISL e CGIL regionali a procedere al cambio del segretario (addirittura risolto, nel caso della CGIL, attingendo forzatamente da fuori regione); i conflitti nell’avvicendamento dei vertici camerali di Padova e Vicenza; la polemica scoppiata tra presidente regionale degli imprenditori e rettori degli atenei veneti sull’ipotesi di dar vita a un moderno Politecnico. Quanto alla politica, la debolezza delle leadership è di tutta evidenza nell’intero Nordest: basti pensare al fatto che quattro “governatori” dell’area (Galan in Veneto, Illy in Friuli-Venezia Giulia, Dellai in Trentino e Durnwalder in Alto Adige) sono rimasti saldamente al loro posto da più lustri (e due, Dellai e Durnwalder, sono ancora al loro posto), certo per meriti propri ma anche per manifesta mancanza di credibili alternative.
Il risultato finale è il consolidamento della marginalità di vecchia data del Nordest a scala nazionale, e del suo doppio limite comunicativo: venire raccontato male e in modo distorto da fuori; non riuscire a raccontarsi correttamente all’esterno per ciò che è e non per i suoi aspetti caricaturali (Jori 2007). Una diagnosi ribadita da Piero Bassetti, presidente dell’associazione Globus et Locus: «Il Nordest non riesce a mettere il naso fuori dalla bottega. E i mea culpa servono a poco: dovrebbe cambiare politica e comportamento. Ho l’impressione che il problema sia far funzionare in modo orchestrato i soggetti politici ed economici, in modo tale da produrre una sinfonia tra le istituzioni esistenti. Invece in Veneto quel poco che avrebbe voce canta in solitudine il suo spartito. Compito di una classe dirigente è darsi un obiettivo che accomuni. Si può far politica anche con le istituzioni che esistono, se c’è una classe dirigente che sa farlo. L’Emilia Romagna non ha mica delle istituzioni diverse dal Veneto…». E invita ad allargare gli orizzonti guardando all’intero Nord, puntando su «una Global City che non è nemmeno la città metropolitana, è invece una città di funzioni che nel loro intreccio costituiscono la metropoli… una città in cui ogni rete che la caratterizza ha altri nodi ed altri centri» (Bassetti 2005, pp.6-9).
Di una scelta del genere, il Nordest ha assoluta esigenza se vuole riuscire a completare l’attuale passaggio di fase, da un modello di sviluppo estensivo basato sulla quantità, a uno intensivo che faccia perno sulla qualità. Lo sostiene Innocenzo Cipolletta, che in quest’area ha ricoperto ruoli diversi e significativi, dalla Marzotto alla Fondazione Nordest, e oggi presidente di Ferrovie dello Stato: «Il Nordest ha bisogno di un’area metropolitana moderna. La forte crescita delle imprese negli ultimi trent’anni ha sfruttato gran parte del territorio, al punto che ormai la pianura veneta assomiglia a una grande Los Angeles cosparsa di case e fabbriche. In queste condizioni, le aziende crescono male e si perpetua la piccola dimensione…
Il sistema dei distretti, come intesi nel progetto della Regione, è la soluzione. Sarebbe utile costruire un’area metropolitana che attragga menti. Dove c’è scambio continuo di esperienze, c’è innovazione ed intelligenza e tutti finiscono per muoversi» (Cipolletta 2003, p.8). D’altra parte, il già citato studio dell’Istituto Nazionale di Urbanistica sottolinea con grande chiarezza che «le più recenti tendenze dello sviluppo economico in Italia, ma non solo, mostrano una riconcentrazione della crescita nei nodi metropolitani: essi rappresentano, oggi più che mai, le aree di maggiore densità di opportunità e di fattori di innovazione, nodi di raccordo, connessione e integrazione tra scala globale e dimensione locale, luoghi della raccolta ed elaborazione delle conoscenze, dove è possibile realizzare sempre nuove sintesi […]. La crescita del futuro dev’essere legata molto alla qualità ambientale del territorio, che è fondamentale per attrarre capitale umano dall’esterno ma anche per trattenere quello già esistente» (INUV 2007).
Quanto distante sia la teoria dalla pratica, lo dimostra un semplice tour esplorativo soprattutto attraverso la fascia centrale del Veneto, ma anche un rapido ripasso delle mille sigle sfornate negli ultimi anni sul piano urbanistico, tra le quali è sinceramente difficile raccapezzarsi: Ptrc, Ptcp, Pat, Pi, Pati, Pua, Pru, Piu, Prusst, Piruea… E il lodevole tentativo della legge regionale 11/2004, che di fatto costituisce un testo unico della materia, deve comunque fare i conti con la proliferazione delle aree industriali e artigianali (in media quattro a testa nei 580 Comuni veneti…) che ha portato non solo alla virtuale saturazione, ma anche al degrado del territorio: cui tenta di porre rimedio uno dei tanti strumenti citati, il PIRUEA (Programma Integrato di Riqualificazione Urbanistica, Edilizia e Ambientale) che punta sul recupero di aree dismesse e/o degradate, nonché sul potenziamento e/o riqualificazione di servizi e infrastrutture, dal riordino degli insediamenti esistenti all’ammodernamento delle urbanizzazioni. Ma non basta, con tutta chiarezza: soprattutto in proiezione di un’area metropolitana possibile e non virtuale, occorre mettere mano anche una rivisitazione di fondo del modello produttivo, e in particolare della logistica, che di un nodo metropolitano è componente essenziale.
Basti pensare ai costi da congestione che l’attuale situazione comporta a causa di una mobilità compromessa dalla crescita esponenziale del trasporto su gomma, e che sono stati evidenziati molto bene da Ercole Incalza, ex responsabile delle Ferrovie dello Stato, in un seminario sul tema “Il Nordest da periferia a centro – Un nuovo approccio per la logistica e la finanza”: «La produzione industriale nel Veneto si è attestata nel 2006 attorno ai 60 miliardi di euro. Il costo da congestione sulla rete stradale principale della regione ha superato nel 2005 la soglia del 2,8 per cento, cioè ha raggiunto un valore pari a 1 miliardo 680 milioni di euro. Una cifra che da sola azzera la competitività della produzione regionale e causa delocalizzazioni industriali irreversibili» (Incalza 2007, p.14). Senza contare ciò che si perde a causa delle inefficienze, e che Incalza documenta con un semplice esempio: «Negli interporti di Verona e Padova si movimenta un volume globale di oltre 32 milioni di tonnellate. Se si tiene conto che ogni tonnellata di merce movimentata produce un valore aggiunto di circa 20 dollari, questa enorme quantità dovrebbe lasciare nel Veneto un valore aggiunto pari a 640 milioni di dollari; in realtà ne rimane appena il 12-15 per cento» (ivi, p.15).
Siamo dunque a un livello fortemente deficitario di integrazione, frutto in larga parte proprio della crescita senza regolazione che ha contraddistinto il Nordest, e in maniera particolare il Veneto, fin dall’immediato secondo dopoguerra, quando la regione veniva definita “il Sud del Nord”, e quando una legge fortemente voluta dalla Democrazia Cristiana (all’epoca partito largamente egemone) aveva introdotto una sorta di Cassa del Mezzogiorno in versione settentrionale, classificando una larghissima maggioranza dei comuni veneti come aree depresse, e aprendo la strada al criterio dei finanziamenti a pioggia. Oggi, le stesse condizioni che hanno favorito lo sviluppo (o una “crescita senza sviluppo”, come la definiscono alcuni) determinano la crisi del modello, come lucidamente sintetizzato da Aldo Bonomi: «La crisi di questo capitalismo altro non è che la crisi dei suoi tre reagenti chimici fondamentali: famiglia, paese e distretto. Questi avevano metabolizzato il fordismo e lo sviluppo locale trasformandoli in localismo e comunità economiche locali dove la famiglia messa al lavoro, il paese con i suoi capannoni industriali, hanno fatto distretti e un’enorme piattaforma produttiva densa di merci e di localismi. Ma i tre reagenti chimici del Dna territoriale non bastano più nella globalizzazione. Il modello è maturo e stanco» (Bonomi 2003). In questo contesto, anche la logica del PIL mostra i suoi limiti, e le vecchie politiche territoriali si dimostrano insufficienti: un’area metropolitana richiede una governance che sappia andare oltre, garantendo investimenti anche nelle relazioni, oltre che nell’economia. E qui viene a galla un limite anche questo antico del Veneto, anche questo legato al modello di sviluppo: «Uno dei deficit principali di cui questa regione soffre è la mancanza di investimenti in beni pubblici (scuola, sanità, qualità ambientale eccetera) … la mancanza di politiche pubbliche in grado di aumentare la qualità sociale a fronte di una forte ricchezza economica. Il dato risulta particolarmente grave se si pensa che la scarsità di risorse investite nei beni pubblici non fa che aggravare il livello di sviluppo umano su cui già si segnalano difficoltà, come la scolarizzazione: una sorta di circuito vizioso per cui il Veneto rischia di avvitarsi, perseguendo il peggioramento della qualità complessiva di vita di ciascuno e delle comunità» (Belloni 2005, p.23).
Come uscire da questa condizione per riprogettare un Nordest possibile, che tenga insieme reti di impresa e reti di città, i distretti produttivi e i luoghi del policentrismo, in altri termini i due capisaldi di questa realtà? La risposta non può che passare attraverso l’individuazione dei contenuti e degli strumenti di una “governance” territoriale basata sulla condivisione di obiettivi strategici da parte di una pluralità di decisori: principalmente politici o comunque del settore pubblico, ma anche soggetti privati, disponibili a incontrarsi su una visione intersettoriale degli interessi cui ispirare azioni comuni, o quanto meno non divergenti. Un obiettivo alto ma anche distante a giudicare dalla situazione attuale, come segnala l’urbanista Franco Migliorini: «Sotto questo profilo, il Nordest rivela una sua fragilità. Una vera “governance” non è mai stata dichiarata e non è neppure percepibile… Una rete di città medio-piccole, una platea d’imprese, anch’esse medio-piccole, con poche eccezioni, un moderatismo politico dominante che interpreta gli umori di una società di 6,7 milioni di abitanti complessivi, laburista in quanto riunita attorno all’etica del lavoro, è un’ipotesi di lavoro affascinante ma non ancora un progetto condiviso» (Migliorini 2007, p.30). Come arrivarci? Secondo i parametri fissati dall’OCSE, un’area metropolitana viene individuata sulla scorta di tre requisiti: una popolazione minima di un milione e mezzo di abitanti, una densità superiore ai 150 abitanti per chilometro quadrato, e un indice di auto-contenimento pendolare (cioè di gravitazione interna all’area) non inferiore al 90 per cento dei movimenti giornalieri. Nessuna città nordestina da sola, ma neanche l’attuale Nordest nella sua totalità, risponde a tutti e tre questi parametri; viceversa, molte realtà singole o associate (imprese, distretti, università, centri di ricerca, nodi finanziari) dispongono di quei requisiti di eccellenza che caratterizzano le 35 realtà europee oggi ufficialmente classificate come metropolitane, e in cui contano fattori strategici come il capitale fisico e quello umano.
Su come costruire un sistema a rete partendo da questo stato dell’arte, i pareri sono divisi. Paolo Costa sostiene l’esigenza di partire da un “core” metropolitano «che non può essere costruito altro che attorno all’asse Venezia-Padova: in una società planetaria e sui mercati mondiali si sta da protagonisti solo possedendo, e utilizzando, strumenti di comunicazione globale (e poche città comunicano al mondo più di Venezia) e un aggregato anche geografico di servizi superiori (formazione e ricerca, foyers di cultura, strutture espositive, banche e assicurazioni, porti e aeroporti per l’interazione globale, eccetera). Un progetto ambizioso e all’altezza dei tempi concentrerebbe sforzi e risorse» (Costa 2007, p.10).
Paolo Feltrin propone un’altra ipotesi, più articolata dal punto di vista territoriale: «Esiste già un’area significativa attorno a Padova, con due braccia che si tendono da un lato verso Vicenza-Verona, dall’altro verso Venezia-Treviso; e con una serie di raggi che si stanno via via addensando verso Bassano, Cortina, Rovigo. Il problema è come collegare questi raggi con delle circonferenze: se si riuscisse a far questo, si comincerebbe già a dare dignità metropolitana a quest’area. In ogni caso non si tratta tanto di individuarne i confini, anche perché il Veneto di fatto è già una sorta di città unica, dove la gente si sta abituando a muoversi lungo dimensioni legate più agli eventi che alla residenza. La questione vera è mettere a fuoco le specifiche specializzazioni verso cui ogni sotto-area dovrà indirizzarsi» (Feltrin 2003, p.6).
E intanto, nel territorio, stanno sorgendo sperimentazioni spontanee del “fare rete” che prescindono dal riferimento necessitato a un capoluogo di provincia: in particolare lungo l’asse pedemontano che va da Verona a Pordenone, e che rappresenta la spina dorsale dell’economia nordestina, e al contempo una delle aree più dinamiche e produttive d’Europa.
Ma è proprio la specificità dell’area vasta formata da tre regioni (o forse da due, visto che il Trentino-Alto Adige presenta per molti aspetti caratteristiche alternative che lo spingono più lungo l’asse Nord-Sud che quello Est-Ovest) a comportare difficoltà operative rilevanti: come riuscire a superare le logiche burocratico amministrative chiuse che si fermano ai confini geografici (anche qui con delle esperienze innovative di sicuro interesse, come l’Unione dei Comuni del Camposampierese); come sviluppare forme cooperative tra territori appartenenti ad ambiti diversi; come raccordare tra loro le reti lunghe dei transiti con le reti corte dei luoghi; come ricondurre centri abitati (città e paesi) e centri della produzione (distretti e imprese) in una sintesi unitaria che restituisca centralità al governo del territorio nel suo insieme. Un obiettivo ambizioso e che richiede un lungo cammino di fatto appena iniziato, come sottolinea Migliorini (2007): «Qui sta il Nordest, in quella zona di transizione tra un’economia e un’altra, tra uno stile di vita e un altro, tra un paesaggio urbano e qualcosa di auspicabilmente migliore di ciò che oggi si ritrova davanti agli occhi» (p.87). Ma d’altra parte anche un percorso obbligato, se si vuole essere in condizione di gestire lo sviluppo anziché subirlo: le profonde trasformazioni, ormai non più sotterranee, in atto nelle dinamiche socio-economiche del Nordest, dimostrano i limiti dei vecchi modelli di regolazione politica e amministrativa. In particolare l’immigrazione, divenuta impetuosa dalla fine degli anni Novanta, al di là delle polemiche tra oltranzisti e buonisti, mette a nudo l’insufficienza e l’inadeguatezza delle politiche territoriali, con gli inevitabili riflessi su temi sensibili per l’opinione pubblica a partire dalla sicurezza; e richiede un approccio radicalmente diverso e innovativo per far crescere l’inclusione, strada maestra per ridurre sempre più l’area della marginalità e del disagio sociale.
L’interrogativo di fondo, a questo punto, è semplice quanto essenziale: il vecchio policentrismo nordestino è in grado di farsi metropolitano, e come? Non attraverso una pur ampia operazione urbanistica, né una pur drastica riorganizzazione produttiva: da soli, questi ingredienti sono sicuramente necessari ma non sufficienti. Occorre aggiungervi il superamento della logica fin qui dominante, se non esclusiva, dei pur validi solisti e play-maker, per fare spazio a quella squadra tante volte (e fin qui inutilmente) auspicata. Solo così, osserva Migliorini (2007), sarà possibile «configurare un intero sistema, il Nordest, non come sommatoria di singole unità autonome, ma come rete unitaria di nodi maggiori e minori che, pur mantenendo individualità distinte e vocazioni diverse, vedono accentuata la loro complementarietà grazie a una più fitta trama di relazioni e di opportunità di accesso… In sostanza una più forte e diffusa centralità di un’intera regione, in transizione da periferia industriale a parte del cuore metropolitano europeo» (p.97). Non è un progetto che si possa disegnare sulla carta: richiede di essere implementato attraverso l’esperienza quotidiana, nutrita delle “buone pratiche” che già esistono nel territorio, e di altre da inventare e diffondere.
Comprendendo che ciascuno deve cedere qualcosa delle vecchie logiche, ma per acquisire in realtà qualcos’altro di più essenziale: «Prima ancora di divenire istituzione, la politica metropolitana costituisce un ridisegno dei ruoli e delle competenze dentro un territorio dato, e in un sistema di poteri locali, esistenti e operanti, con tutti gli strumenti settoriali di cui questi sono dotati per esplicare al meglio il loro mandato» (ivi, p.104).
In fin dei conti, si tratta anche di un ritorno al passato: nel suo libro citato, Copiello osserva che una metropoli veneta c’è già stata, e ha coinciso con la stagione migliore della Serenissima. Che ha avuto nei secoli molti ospiti illustri, quasi tutti saliti sul campanile di San Marco. Da lassù, annota nel Settecento Charles De Brosses (magistrato, filosofo, linguista e politico francese), «ho scorto comodamente tutta l’estensione di Venezia, le isole e i villaggi in mezzo al mare che le fanno corona, le case che coprono la laguna e tutta la costa d’Italia, da Comacchio sino a Treviso, il Friuli e le Alpi…» (de Brosses 1992). Questa, e altre descrizioni di una realtà vista con occhi stranieri, dovrebbero ricordare a chi in questa terra vive «quanto ampie e panoramiche possano essere le visuali da cui si può guardare il Veneto, e come sia possibile percepirlo nella sua unità, anche se si tratta di una regione dagli ambienti molto diversi, dai paesaggi mutevoli passando da una parte all’altra» (Turri 2000, p.211). Basta usare i campanili non per rifugiarsi nella piazza alla loro ombra, ma per salirvi in cima. E poter così cogliere l’ampiezza dell’orizzonte.
Note:
1 Per un maggiore dettaglio su questo tema, dopo l’approvazione della L.r 8/2003 sui distretti produttivi del Veneto, si veda Messina (2005) e gli aggiornamenti presentati su
http://polisdoc.cab.unipd.it linea di policy sui distretti.
2 Istituto Nazionale di Urbanistica Veneto, “Le città metropolitane”; in www.inuveneto.it, 3.12.2007.
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