Secondo questo interessante e documentato articolo, i decreti legge 95 e 188 del 2012 oltre a non essere migliorativi delle leggi precedenti, riportano il dibattito indietro di almeno 40 anni, e rappresentano un vero e proprio colpo di spugna alla stagione di studi sulle aree urbane e metropolitane, che, dai pionieristici lavori di Cafiero e Busca (1970) per lo SVIMEZ, giunge fino ai giorni nostri, riportando la questione ad una pedissequa riperimetrazione di confini comunali.
di: Fabiano Compagnucci, Università IUAV di Venezia, Dipartimento di progettazione e pianificazione in ambienti complessi
pubblicato su EyesReg, Vol.3, N.2 – Marzo 2013.
Se fra gli anni ’80 e gli anni ’90 la pianificazione in Europa si è concentrata soprattutto sui progetti di riqualificazione e trasformazione degli spazi urbani, con la fine degli anni ’90 la dimensione territoriale delle politiche pubbliche diventa centrale e, con essa, l’attenzione nei confronti delle regioni e delle città.
Lo Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo (1999) può essere considerato il primo atto della nuova strategia di governance territoriale europea, cui seguiranno, fra i più importanti, l’Agenda Territoriale dell’Unione Europea (2007), la Carta di Lipsia (2007), il Trattato di Lisbona (2008) e l’Agenda Territoriale dell’Unione Europea 2020 (2011). Nello stesso periodo, accanto all’interesse per la dimensione territoriale delle politiche pubbliche, riprendono vigore gli studi di regionalizzazione, in particolare quelli relativi all’individuazione delle aree urbane, l’ultimo dei quali riguarda la proposta di delimitazione delle aree metropolitane da parte dell’OECD (2012).
Se fra gli anni ’80 e gli anni ’90 la pianificazione in Europa si è concentrata soprattutto sui progetti di riqualificazione e trasformazione degli spazi urbani, con la fine degli anni ’90 la dimensione territoriale delle politiche pubbliche diventa centrale e, con essa, l’attenzione nei confronti delle regioni e delle città.
Lo Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo (1999) può essere considerato il primo atto della nuova strategia di governance territoriale europea, cui seguiranno, fra i più importanti, l’Agenda Territoriale dell’Unione Europea (2007), la Carta di Lipsia (2007), il Trattato di Lisbona (2008) e l’Agenda Territoriale dell’Unione Europea 2020 (2011). Nello stesso periodo, accanto all’interesse per la dimensione territoriale delle politiche pubbliche, riprendono vigore gli studi di regionalizzazione, in particolare quelli relativi all’individuazione delle aree urbane, l’ultimo dei quali riguarda la proposta di delimitazione delle aree metropolitane da parte dell’OECD (2012).
In questo quadro, come si declina il dibattito sulla pianificazione
territoriale e sull’individuazione delle aree urbane in Italia? Faludi
(2004) sottolinea come, dal punto di vista della pianificazione,
l’Italia non solo sia priva di organismi paragonabili a quelli di altri
paesi, ma, soprattutto, che la dimensione progettuale abbia un respiro
prettamente localistico, lasciando in secondo piano un approccio più
sistemico. Da una parte, infatti, lo sviluppo urbanistico del territorio
dello Stato è ancora disciplinato dalla legge 1150 del 1942.
Dall’altra, le modifiche che la 1150 ha subito nel tempo hanno
determinato una situazione di eccessiva frammentazione degli strumenti
urbanistici, delegati a Regioni, Province e Comuni, e di scarso
coordinamento, mancando una strategia di respiro nazionale.
In relazione all’identificazione delle aree urbane e metropolitane, poi, la situazione non sembra certo migliore. Se è vero che l’Italia dispone di una mappatura funzionale del territorio espressa attraverso la metrica dei mercati locali del lavoro (i cosiddetti Sistemi Locali del Lavoro, SLL; Istat, 2005), altrettanto vero è che essi non sembrano idonei a descrivere le forme emergenti di organizzazione del territorio in sistemi urbani. L’identificazione dei SLL, infatti, per ammissione degli estensori del relativo algoritmo, “non può ignorare l’esigenza di mantenere distinti mercati locali significativi in quelle zone dove la forma degli insediamenti residenziali e produttivi è caratterizzata da agglomerazioni urbane, o di tipo metropolitano” (Istat e Irpet, 1989, p. 21).
Ad oggi, dunque, le aree urbane e metropolitane italiane rimangono
oggetti spaziali non identificati, anche a causa dell’inerzia dei
decisori pubblici nel disciplinarne la materia. Basti ricordare, a tal
proposito, che l’iter legislativo relativo all’individuazione,
istituzione e regolamentazione delle aree metropolitane inizia nel 1990
con la legge n. 142 ma che esso non ha ancora prodotto alcun effetto.
La
legge 142 viene abrogata dal decreto legislativo n. 267 del 2000 che ne
riprende le categorie di “Area Metropolitana” e “Città Metropolitana”,
accogliendo definitivamente le aree metropolitane come livello di
governo locale. Un’Area Metropolitana (Art. 22) è costituita da uno dei 9
comuni-capoluogo identificati ex-lege (Torino, Milano, Genova, Venezia,
Bologna, Firenze, Roma, Napoli e Bari) e dai comuni ad essi integrati
dal punto di vista territoriale, delle attività economiche, dei servizi
essenziali alla vita sociale e delle relazioni culturali. All’interno
delle Aree Metropolitane il comune capoluogo e gli altri comuni ad esso
uniti da contiguità territoriale e da rapporti funzionali possono
costituirsi in Città Metropolitane ad ordinamento differenziato (Art.
23).
Anche la legge n. 267 non avrà esiti operativi in relazione
all’istituzione delle Città Metropolitane. Attualmente, nonostante la
sospensione operata dalla legge n. 228 del 24 dicembre 2012 fino al 31
dicembre 2013, la materia è regolata dal decreto-legge n. 95 del 6
luglio 2012 (successivamente modificato dal decreto-legge 5 novembre
2012, n. 188) emanato dal governo Monti. Con esso, dopo l’abrogazione
dei suddetti articoli 22 e 23, vengono individuate 10 Città
Metropolitane (alle 9 precedentemente individuate si aggiunge quella di
Reggio di Calabria) riducendone l’individuazione ad una pedissequa
sovrapposizione con il territorio delle relative province (nel caso di
Milano e Firenze vengono unificati più territori provinciali).
Una rilettura critica di questo oramai ventennale iter normativo ci
porta ad affermare che, se la legge 142 ed il decreto legislativo 267
contengono numerosi elementi critici in relazione all’individuazione
delle aree metropolitane e nessun elemento di novità rispetto al
dibattito allora in corso, l’eventuale implementazione della legge 95
rappresenterebbe addirittura un passo indietro. Di più, un vero e
proprio colpo di spugna alla stagione di studi sulle aree urbane e
metropolitane, che, dai pionieristici lavori di Cafiero e Busca (1970)
per lo SVIMEZ, giunge fino ai giorni nostri.
In particolare, nonostante
con le leggi 142 e 267 l’individuazione delle Aree e delle Città
Metropolitane non discenda da un criterio analitico univoco e, dunque,
applicabile in maniera omogenea alle diverse realtà metropolitane, esse
contengono comunque alcuni elementi di interesse, fra cui possiamo
ricordare:
1. la metodologia di individuazione dei comuni che fanno parte delle
Aree e delle Città Metropolitane, anche se non esplicitata formalmente, è
informata da criteri funzionali, l’approccio oramai universalmente
riconosciuto come il più pertinente nel dare conto delle forme urbane
emergenti. In entrambe le leggi, infatti, si fa riferimento alle
relazioni che intercorrono fra comuni capoluogo e gli altri comuni
dell’Area Metropolitana, che, oltre ad essere di natura territoriale,
riguardano anche la sfera economica, sociale, ricreativa e culturale;
2. la distinzione fra Aree e Città Metropolitane prefigura l’articolazione del territorio metropolitano in:
- un nocciolo urbano – la Città Metropolitana – costituito da uno dei comuni-capoluogo indicati ex-lege e dai comuni ad esso contigui e funzionalmente integrati. Si tratta, cioè, di uno spazio sovracomunale in cui il livello di densità relazionali è tale da legittimarne una rappresentazione territoriale unitaria ed in cui gli abitanti soddisfano la funzione residenziale, quella lavorativa, sociale e ricreativa;
- un’area periferica – il resto dell’Area Metropolitana – che scambia flussi materiali ed immateriali con il nocciolo urbano, rispetto al quale, però, le densità relazionali sono meno intense rispetto a quelle che intercorrono fra i comuni del nocciolo urbano;
3. il fatto che la legge statuisce implicitamente la superiorità del
criterio funzionale a quello amministrativo. Nonostante, infatti, il
territorio di riferimento delle istituende Aree Metropolitane sia quello
provinciale, nel caso in cui la Città Metropolitana individuata abbia
confini da essa difformi, la provincia deve adeguarsi attraverso una
nuova delimitazione delle circoscrizioni provinciali o l’istituzione di
nuove province;
4. il fatto che le due leggi siano in qualche maniera permeate
dall’allora dibattito teorico ed empirico sulle aree urbane. Non sfugge
la coincidenza temporale fra l’emanazione della legge 142 e la
pubblicazione collettanea della VIII Conferenza Nazionale dell’AISRe a
cura di Dino Martellato e Fabio Sforzi intitolata “Studio sui sistemi
urbani” (1990) ed orientata ad approfondire gli aspetti empirici
dell’analisi delle città.
I decreti legge 95 e 188 del 2012, invece, oltre a non essere
migliorativi delle leggi precedenti, riportano il dibattito indietro di
almeno 40 anni.
In particolare:
1. la disciplina delle Città Metropolitane trova spazio nel Titolo IV
del decreto legislativo n. 95 “Razionalizzazione e riduzione della
spesa degli enti territoriali”, all’Art. 18 “Istituzione delle Città
metropolitane e soppressione delle province del relativo territorio”,
connotandone il portato in termini negativi. L’individuazione e
l’istituzione delle Città Metropolitane, infatti, non sembra avere
rilievo strategico in sé, ma soltanto in quanto funzionale al
contenimento della spesa pubblica. Non, dunque, una norma proattiva che,
preso atto della centralità della città nell’economia globalizzata in
quanto ambito di produzione e scambio della conoscenza (Compagnucci e
Cusinato, 2013), cerca di disciplinarne l’individuazione in termini
spaziali e di meccanismi di governance, ma un semplice strumento
finalizzato alla spending review;
2. scompare la categoria di Area Metropolitana e con essa la
possibilità di articolarne il territorio in zone con diversi gradi di
interazione spaziale e di densità relazionali rispetto al polo centrale;
3. non c’è nessun riferimento, esplicito o implicito, a criteri di identicazione funzionale;
4. come nella legge precedente non si fa alcun riferimento al resto
dei sistemi urbani, ossia a quelli di medie e piccole dimensioni,
ignorandone le potenzialità. Anche in questo caso un atteggiamento in
controtendenza rispetto alle priorità che emergono dal dibattito
europeo, in cui le aree urbane di piccole e medie dimensioni sono
considerate strategiche per uno sviluppo più equlibrato, coeso e
sostenibile del territorio (OECD, 2012).
Nonostante la crescente enfasi europea sulle città come target delle
politiche territoriali e sul ruolo che esse svolgono come motori delle
rispettive economie nazionali, come interfaccia fra la dimensione locale
e quella globale, come generatori di innovazione e conoscenza, come
laboratori ove cercare di risolvere in maniera integrata le
problematiche emergenti di tipo sociale, ambientale ed economico, la
questione urbana non sembra essere centrale nell’agenda dei decisori
pubblici italiani.
Non lo è dal punto di vista spaziale, mancando una
modalità di identificazione condivisa ed ufficiale di città, che tenga
conto del suo processo di proiezione territoriale sui comuni
circostanti, il cui esito si sostanzia nella formazione di sistemi
urbani sovracomunali funzionalmente interrelati.
Non essendo sufficiente
il portato delle Leggi 142 e 267, come pure il ricorso ai SLL, si
dovrebbe introdurre un algoritmo di identificazione che, oltre alla
centralità in termini di offerta di lavoro e soglie dimensionali in
termini di addetti e/o densità abitative, consideri la presenza di
funzioni economiche di livello superiore (ad esempio ricerca, cultura,
gestione, servizi avanzati knowledge-based) per individuare la gerarchia
dei punti focali dell’armatura urbana nazionale. In seguito, come
accade per i SLL, si potrebbero utilizzare i dati sui flussi pendolari
per individuare i comuni che rispetto a tali punti risultano
funzionalmente interrelati.
La mancata concettualizzazione spaziale dei
nuovi sistemi urbani italiani implica l’impossibilità di dotarli di un
livello di governance pertinente e, di conseguenza, di calibrarvi
politiche territoriali congrue. Il mancato accompagnamento del processo
economico delle città da parte di politiche pubbliche che ne abbiano
internalizzato l’esistenza determina, partendo da una prospettiva
evoluzionista ed istituzionalista, l’esplicarsi parziale del potenziale
di sviluppo endogeno delle città, che, per somma, si riflette in una
performance nazionale inferiore a quella potenziale. Uno dei fattori, in
estrema sintesi, del declino economico che ha investito il nostro paese
negli ultimi 20 anni.
Riferimenti bibliografici
Cafiero S., Busca A. (1970), Lo sviluppo metropolitano in Italia, Roma: Giuffrè Editore.
Compagnucci F., Cusinato A. (2013, forthcoming), The Knowledge
Economy: A Further Source of Regional Inequalities?, Revue d’Economie
Régionale et Urbaine, numero speciale, II semestre.
Faludi A., Waterhout B. (2002), The Making of the European Spatial
Development Perspective: No Masterplan, New York-London: Routledge.
Istat (2005), Distretti industriali e sistemi locali del lavoro 2001, Roma: Istat.
Istat-Irpet (1989), I mercati locali del lavoro, Milano: Franco Angeli.
Martellato D., Sforzi F. (1990), (a cura di), Studi sui sistemi urbani, Milano: Franco Angeli.
OECD (2012), Redefining “Urban”: A New Way to Measure Metropolitan Areas, Paris: OECD Publishing.
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