Giuseppe Campos Venuti
La situazione del Paese è veramente difficile, mentre scrivo
non so quale sarà quando questo testo sarà pubblicato e stando così le cose,
discutere di urbanistica forse non sembrerebbe ragionevole. Ma vecchio come
sono, ho imparato che ognuno di noi deve sempre continuare ad occuparsi delle
cose per le quali ha sempre lottato; e che, se tutti facessero così, la
situazione del Paese sarebbe migliore.
E allora come dirigente dell’Istituto Nazionale di
Urbanistica, penso di poter intervenire in una polemica sulla riforma urbanistica,
che oggi si svolge fra pochi specialisti perché, purtroppo ormai l’urbanistica
sembra non interessi più a nessuno. Né mi convince l’idea, che la colpa di
questo sia degli urbanisti, come anche fra noi qualcuno sostiene.
Intanto quello che chiamiamo urbanistica, investe tutto il
governo delle città e del territorio, il paesaggio, l’ambiente, l’ecologia, il
risparmio energetico, l’assetto idrogeologico, la gestione antisismica, insomma
una parte decisiva della presenza dell’uomo sulla Terra; e francamente che
tutto ciò in Italia non interessi ormai quasi a nessuno, è assai grave e
preoccupante. Anche perché questa disattenzione riguarda l’Italia, ma non gli
altri Paesi d’Europa, che pure condividono con il nostro interessi e difficoltà
non minori di quelli italiani.
Non ho certo l’intenzione di fare una difesa corporativa di
noi urbanisti, proprio mentre affronto una discussione politico-disciplinare
che ci riguarda; ma sono convinto che, purtroppo, i responsabili della
situazione non siamo noi, che pure non manchiamo di colpe. Credo, invece, che
negli anni Sessanta la politica e l’intera società italiana si sono impegnate a
fondo sulle scelte urbanistiche del Paese, purtroppo facendo quelle sbagliate;
ma da allora, invece, di tenere viva la questione e di riproporne le
alternative, la politica e l’intera società hanno progressivamente accantonato
il tema, che rappresenta oggi uno degli scheletri nell’armadio del nostro
Paese. Mentre nel resto dell’Europa, il governo del territorio restava
all’ordine del giorno con soluzioni più o meno buone, ma che comunque davano
una risposta alle richieste della società.
Il fatto di essere emarginati dal dibattito politico, non
credo che autorizzi gli urbanisti ad accettare in Italia questa spiacevole
situazione; deve spingerci, invece, ad affrontare seriamente i problemi sul
tappeto, senza smettere di riproporli all’attenzione della politica nazionale.
Ed è quello che vorrei fare in questa sede. Certamente la gestione
dell’urbanistica si sovrappone a numerose altre politiche che riguardano, come
ho già detto, la città ed il territorio; a questo proposito la mia opinione è
che la disciplina urbanistica, dovrà offrire spesso precisi richiami alla
attuazione di quelle politiche, ma non deve in alcun modo pensare di sostituirle.
Sono, invece, senza dubbio di competenza strettamente
disciplinare, da un lato la proposta di una nuova politica immobiliare e
dall’altro la soluzione del modello di pianificazione e attuazione, in sostanza
la sostituzione della vecchia legge urbanistica del 1942; a proposito della
quale mi sembra utile chiarire la polemica che dura da anni.
Voglio avanzare, per prima la mia proposta sulla nuova
politica immobiliare che parte, come stanno facendo diversi Paesi europei,
affrontando alla radice il problema del consumo di suolo; ma non senza metterlo
a confronto con l’altrettanto grave problema relativo al patrimonio edilizio
nazionale. Il consumo di suolo, cioè la sottrazione di aree agricole e boschive
destinate ad uso urbano, va in primo luogo liberato dall’approccio ideologico;
che è arrivato perfino ad ingigantire i dati reali, quasi che questi non
fossero abbastanza gravi.
Secondo l’Atlante del consumo di suolo, pubblicato a
Bologna dal Laboratorio Urbano, si tratta al 2011 di 20.300 ha. di aree non più
extraurbane, che rappresentano il 6,7% del territorio nazionale; non molto di
più di quanto calcolato dal Corine Land Cover.
L’uso agricolo e boschivo va, però, esaminato criticamente;
perché la politica agricola europea molto discutibile, va corretta a fondo,
riducendone le caratteristiche attuali fortemente idroesigenti e trasformando
la sua dipendenza dal sistema distributivo, che allontana in modo eccessivo la
produzione dal consumo. Non senza rivalutare in generale la grande importanza
ambientale e idrogeologica del territorio extraurbano. Purtroppo, assai spesso,
la spinta a ridurre il consumo di suolo è stata utilizzata in Italia per
favorire la rendita fondiaria, diffondendo la pratica della “densificazione
urbana”; che si è tradotta di fatto in un aumento della densità edilizia e al
limite nella proliferazione dei grattacieli, ai quali non corrisponde mai una
contemporanea cessione di suolo verde permeabile, a fronte del nuovo volume
concentrato in altezza.
Alternativa alla densificazione è, invece, la “rigenerazione
urbana”; cioè la pratica di intervenire sulla città esistente, migliorandola
nelle sue parti degradate, a partire dalle cosiddette “aree dismesse”, cioè
fabbriche abbandonate, scali ferroviari inutilizzati, caserme in disuso e così
via.
E allora la difesa delle aree inedificate prossime alle città andrà
garantita per legge, con una forte imposizione fiscale sui terreni vergini che
la legge dovesse esentare dal nuovo vincolo.
Ma il provvedimento contro il
consumo di suolo non sarà, però, tale da stimolare la ripresa della attività
edilizia dal punto di vista produttivo e occupazionale, creando così un nuovo
regime immobiliare. Infatti, troppo spesso, lamentando il consumo di suolo ci
si dimentica di analizzare i dati sul patrimonio edilizio, che sono altrettanto
gravi.
Infatti se l’espansione urbana esasperata ha consumato
largamente le campagne, la crescita del patrimonio edilizio non è stata meno
patologica. Nel 1951 in Italia 47 milioni di abitanti disponevano appena di 37
milioni di stanze; ma dopo sessanta anni nel 2011, gli abitanti cresciuti a 60
milioni disponevano di ben 116 milioni di stanze; due stanze a persona, il che
francamente non è poco. Dunque, mentre la popolazione era aumentata del 27%, il
patrimonio edilizio era cresciuto addirittura del 213%; si deve allora chiedere
di arrestare, oltre al consumo di suolo, anche il “consumo edilizio”.
Anche perché, mentre durante l’espansione i componenti delle
famiglie erano calati progressivamente, spesso ad un solo componente, la
dimensione degli alloggi realizzati era rimasta assai elevata; al punto che più
di un terzo delle abitazioni oggi esistenti sono a 5 o più stanze, spingendo il
mercato verso una domanda di nuovi alloggi molto piccoli, mentre il patrimonio
resta formato di alloggi troppo grandi. In sostanza lo stock abitativo, già
indubbiamente eccessivo, è ancora composto di alloggi molto grandi, a fronte di
famiglie sempre più piccole.
E allora non basta ridurre drasticamente il consumo di
suolo, utilizzando per la nuova edilizia le aree dismesse esistenti nelle
città, ma bisogna anche spingere la rigenerazione a frazionare i molti alloggi
troppo grandi; con l’obbiettivo di aumentare il numero degli alloggi, senza
costruire nuovi edifici, soddisfacendo così la domanda di piccoli alloggi del
mercato, senza ridurre le stanze che restano sovrabbondanti. Offrendo anche in
tal modo una valida occasione produttiva, alle migliaia di piccole e medie
aziende senza lavoro, che sono le più adatte per questi interventi da realizzare
capillarmente nelle città.
Studiando anche i modi per intervenire sulle case da
frazionare, nel tempo più breve possibile, per vincere le resistenze dei
proprietari a fare i lavori, magari senza abbandonare l’alloggio; sostenendo,
quindi, questa politica con rilevanti sgravi fiscali e con un diffuso credito
agevolato. Basterà spingere al frazionamento una quota anche relativa dei molti
alloggi troppo grandi, per creare un mercato del tutto nuovo, perché fino ad
oggi rivolto a nuovi alloggi su aree inedificate. In conclusione, insieme al
consumo di suolo, bisogna combattere anche il consumo edilizio, trasformando
per intero il vecchio regime immobiliare.
Se la rigenerazione urbana e il frazionamento di una parte
degli alloggi troppo grandi, sembra la politica necessaria a far decollare un
nuovo regime immobiliare, la trasformazione del vecchio modello di
pianificazione e attuazione che in Italia non siamo riusciti a cambiare in
mezzo secolo, genera da tempo una polemica che desidero chiarire. Perché questa
polemica disciplinare non sembra compresa dalla politica e dalla società, che
invece di provvedere alla riforma, mostrano di attribuire proprio agli
urbanisti la responsabilità di aver eliminato l’urbanistica dai problemi
importanti per il Paese.
Bisogna ricordare che la riforma urbanistica proposta negli
anni Sessanta per affrontare l’espansione delle città, se approvata avrebbe
risolto il problema applicando il nuovo modello di pianificazione e attuazione
alla legge vigente del 1942; infatti le poche città che hanno applicato la
riforma volontariamente, hanno qualificato la propria espansione per circa un
ventennio, mentre la grande maggioranza delle città che non l’hanno fatto, sono
cresciute all’insegna della rendita urbana.
Con gli anni Ottanta, però, la condizione di partenza è
cambiata, perché la generazione urbanistica è passata dall’espansione alla
trasformazione, con una crescita della rendita differenziale su quella
assoluta; ma contemporaneamente sentenze della Corte Costituzionale favorevoli
alla proprietà immobiliare e i successivi adeguamenti legislativi, hanno
radicalmente modificato il quadro iniziale della legge generale del 1942.
Facendo così cessare le condizioni giuridiche che avevano reso valida la
riforma e rendendo a questo punto necessario un nuovo quadro giuridico, che
fosse adeguato al nuovo regime immobiliare.
Infatti con la nuova situazione, le previsioni edificatorie
private dei piani, restavano direttamente cogenti e realizzabili senza alcuna
scadenza, ma le previsioni pubbliche erano, invece, obbligate ora a realizzarsi
entro 5 anni, utilizzando espropri dai costi ormai insostenibili per i Comuni.
Con il risultato che la città privata era costruita a piacimento e quella
pubblica restava sulla carta ed era addirittura cancellata dopo 5 anni; di
conseguenza l’unico modo che restava ai Comuni per realizzare piccole parti di
città pubblica senza i finanziamenti per gli ormai costosissimi espropri, era
quello di barattare con i privati l’offerta di nuove edificazioni private
aggiuntive rispetto al piano, allo scopo di ottenere in cambio la cessione di
aree di uso pubblico e la costruzione delle relative opere. Cioè un vero e
proprio mercimonio delle scelte di piano, che naturalmente va ad esclusivo
vantaggio della rendita urbana e ha preso il nome di “urbanistica contrattata”.
E proprio per combattere questa patologica situazione
l’Istituto Nazionale di Urbanistica nel 1995, presenta un progetto di nuova
riforma urbanistica, basato su un modello di pianificazione e attuazione
completamente diverso da quello degli anni Sessanta. Il nuovo modello elimina
giuridicamente la prescrittività del piano generale che diventa di puro
indirizzo, mentre le attuazioni selezionate per il breve periodo, sia private
che pubbliche, sono affidate ad un piano operativo e scadono dopo 5 anni;
mentre le previsioni edificatorie private scelte dal piano, sono attribuite in
cambio della cessione gratuita di tutte le aree e di parte delle opere per la
città pubblica.
Questa soluzione ripristina la parità di condizioni fra
previsioni private e pubbliche del piano; mentre evitando le previsioni
prescrittive di lungo periodo, mette fine alla necessità di continue varianti.
E cancellando giuridicamente la prescrittività del piano generale, elimina il
cosiddetto “residuo di piano”; cioè la ingombrante eredità della previsioni
private non scadute e sempre valide, che ogni vecchio piano consegna al nuovo.
Infine, garantisce sempre la attuazione della città pubblica, applicando la
cessione perequativa gratuita regolamentata a tutte le previsioni private;
evitando in genere gli espropri dai costi ormai insopportabili, che restano
utilizzabili soltanto per acquisire palazzi storici o aree periurbane per
infrastrutture.
Sulla nuova riforma urbanistica nasce, però, una polemica
disciplinare che divide il fronte degli urbanisti, fra quelli che scelgono una
posizione riformista e quelli che io definisco massimalisti. E purtroppo i
governi di centrosinistra, anche in questo caso, evitano di schierarsi, facendo
fallire ancora una volta la riforma urbanistica; e negli anni successivi, per
non prendere posizione, finiscono per cancellare del tutto la gestione del
territorio dai temi cruciali per il Paese. Affrontata soltanto con leggi
regionali, in genere non molto migliori della vecchia legge nazionale, mai di
fatto abrogata.
Quanto al merito della questione, mi limito a ripetere ciò
che l’INU ed io stesso sosteniamo da anni. Da un lato la necessità di eliminare
con la prescrittività del piano generale, la concezione di un piano disegnato
quale immutabile per 15, 20 o 40 anni, come è successo per Roma; ripristinando
al contrario il master plan programmatico di origine razionalista, dal quale
selezionare invece ogni 5 anni gli interventi più urgenti ed attuali.
Dall’altro la necessità di cancellare l’uso generale dell’esproprio, il cui
costo ai prezzi correnti è insostenibile dai Comuni e serve soltanto a
remunerare la rendita urbana; sostituendolo con la perequazione compensativa
regolamentata, che equamente chiede alla proprietà immobiliare di contribuire
gratuitamente in aree e opere alla realizzazione della città pubblica, in
cambio della edificabilità che il Comune concede con il piano.
Si tratta, insomma, di applicare un modello urbanistico
simile a quello della legge regionale della Emilia Romagna, che è quello
migliore . Se ad esempio nella vicenda del piano di Roma fosse stato in vigore
questo modello, non sarebbe neppure nata la discussione sulle dimensioni del
nuovo piano; perché la legge riformista avrebbe eliminato giuridicamente il
residuo del piano precedente, formulando un piano generale di indirizzo per il
medio periodo e affidando ad un piano operativo le sole previsioni quinquennali
ritenute adeguate. E le nuove previsioni operative avrebbero fornito
gratuitamente le aree e le opere della città pubblica, con la cessione
perequativa regolamentata.
La polemica disciplinare, purtroppo, non ha aiutato la
politica a prendere le decisioni che le competono; anche perché i massimalisti
hanno opposto al modello riformista semplice ed efficiente, soltanto la
ostinata difesa del vecchio modello che proprio non funziona ed è stato
peggiorato dalle modifiche introdotte dalla Corte Costituzionale. Resta il
fatto che anche in questo caso, la politica non ha saputo fare le sue scelte.
Dal canto loro, gli urbanisti che si oppongono alla
soluzione riformista, non potendo difendere l’uso odierno dell’esproprio, hanno
descritto falsamente la perequazione compensativa regolamentata – cioè
stabilita a priori dal piano, senza nessuna contrattazione —, sostenendo che si
tratta dell’urbanistica contrattata; che, invece, è proprio il frutto perverso
del vecchio modello di piano da loro sostenuto, che fatica a morire e
sopravvive persino in qualche caso in Emilia Romagna, malgrado la nuova legge..
Mentre per difendere la ormai ingiustificabile prescrittività sine die delle
previsioni private del vecchio piano, hanno usato polemicamente la vicenda del
piano di Roma; nella quale il Comune è stato costretto ad operare con la
vecchia legge regionale imposta dai massimalisti, con un risultato certamente
meno efficace di quanto avrebbe permesso la legge riformista.
Una nuova polemica ha aperto il progetto di legge di stampo
chiaramente riformista presentato recentemente in Parlamento, che affronta
minuziosamente tutta la problematica del governo territoriale; c’è chi non l’ha
neppure capito appieno, scambiandolo con una proposta neoliberista, altri vorrà
approfittarne per introdurre emendamenti di destra da richiedere al governo
delle larghe intese. Il rischio è quello di una trafila parlamentare senza
fine, o peggio di un compromesso nefasto indotto dallo stallo politico; io
credo, invece, che senza fare dell’antipolitica rifiutando polemicamente il
testo onnicomprensivo, agli innovatori pragmatici dell’Istituto Nazionale di
Urbanistica convenga, in attesa di dare battaglia sulla legge generale in
Commissione, presentare subito una legge molto sintetica capace di sostituire
immediatamente la ormai insopportabile, vecchia legge del 1942.
Una leggina con tre articoli essenziali, in grado di
inquadrare almeno le leggi regionali, cresciute in completo disordine. Il primo
articolo che renda il piano generale comunale non più prescrittivo, ma
programmatico; il secondo che affidi l’attuazione degli interventi urgenti ad
un piano operativo con scadenza quinquennale; e un terzo che garantisca la
città pubblica usando la perequazione urbanistica, con la cessione gratuita
delle aree e delle opere, da parte delle proprietà immobiliari alle quali il
piano comunale attribuisce la edificabilità. Sollecitando con decisione la
politica ad occuparsi senza attendere oltre, di un limitato, ma indispensabile
e urgente strumento urbanistico e chiedendo ancora agli urbanisti massimalisti,
di misurarsi con le effettive proposte di riforma e non con le proprie visioni
polemiche.
Riforma urbanistica, una storia complicata
13/02/2013
In un articolo l’ultima presa di posizione Inu e la storia recente, complicata, dei tentativi di varare una riforma urbanistica. Tanti testi e proposte, nessun risultato. L‘articolo di Edilportale.com
In un articolo l’ultima presa di posizione Inu e la storia recente, complicata, dei tentativi di varare una riforma urbanistica. Tanti testi e proposte, nessun risultato. L‘articolo di Edilportale.com
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