a cura di Sonia Zarino (architetto, urbanista)

giovedì 26 settembre 2013

Urbanistica, polemica disciplinare e assenze politiche

L’Urbanistica attraversa una fase difficile, oggetto di disinteresse da parte della politica e dei media. Eppure è solo con l’Urbanistica che è possibile pianificare e promuovere uno sviluppo organico del territorio. La legge vigente, e che risale al ’42, non è più lo strumento adatto per le esigenze attuali ed appare sempre più impellente la necessità di una riforma.

Pubblicato su Urbanistica Informazioni n° 248

Giuseppe Campos Venuti 


La situazione del Paese è veramente difficile, mentre scrivo non so quale sarà quando questo testo sarà pubblicato e stando così le cose, discutere di urbanistica forse non sembrerebbe ragionevole. Ma vecchio come sono, ho imparato che ognuno di noi deve sempre continuare ad occuparsi delle cose per le quali ha sempre lottato; e che, se tutti facessero così, la situazione del Paese sarebbe migliore. 


E allora come dirigente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, penso di poter intervenire in una polemica sulla riforma urbanistica, che oggi si svolge fra pochi specialisti perché, purtroppo ormai l’urbanistica sembra non interessi più a nessuno. Né mi convince l’idea, che la colpa di questo sia degli urbanisti, come anche fra noi qualcuno sostiene.


Intanto quello che chiamiamo urbanistica, investe tutto il governo delle città e del territorio, il paesaggio, l’ambiente, l’ecologia, il risparmio energetico, l’assetto idrogeologico, la gestione antisismica, insomma una parte decisiva della presenza dell’uomo sulla Terra; e francamente che tutto ciò in Italia non interessi ormai quasi a nessuno, è assai grave e preoccupante. Anche perché questa disattenzione riguarda l’Italia, ma non gli altri Paesi d’Europa, che pure condividono con il nostro interessi e difficoltà non minori di quelli italiani.


Non ho certo l’intenzione di fare una difesa corporativa di noi urbanisti, proprio mentre affronto una discussione politico-disciplinare che ci riguarda; ma sono convinto che, purtroppo, i responsabili della situazione non siamo noi, che pure non manchiamo di colpe. Credo, invece, che negli anni Sessanta la politica e l’intera società italiana si sono impegnate a fondo sulle scelte urbanistiche del Paese, purtroppo facendo quelle sbagliate; ma da allora, invece, di tenere viva la questione e di riproporne le alternative, la politica e l’intera società hanno progressivamente accantonato il tema, che rappresenta oggi uno degli scheletri nell’armadio del nostro Paese. Mentre nel resto dell’Europa, il governo del territorio restava all’ordine del giorno con soluzioni più o meno buone, ma che comunque davano una risposta alle richieste della società.


Il fatto di essere emarginati dal dibattito politico, non credo che autorizzi gli urbanisti ad accettare in Italia questa spiacevole situazione; deve spingerci, invece, ad affrontare seriamente i problemi sul tappeto, senza smettere di riproporli all’attenzione della politica nazionale. Ed è quello che vorrei fare in questa sede. Certamente la gestione dell’urbanistica si sovrappone a numerose altre politiche che riguardano, come ho già detto, la città ed il territorio; a questo proposito la mia opinione è che la disciplina urbanistica, dovrà offrire spesso precisi richiami alla attuazione di quelle politiche, ma non deve in alcun modo pensare di sostituirle. 


Sono, invece, senza dubbio di competenza strettamente disciplinare, da un lato la proposta di una nuova politica immobiliare e dall’altro la soluzione del modello di pianificazione e attuazione, in sostanza la sostituzione della vecchia legge urbanistica del 1942; a proposito della quale mi sembra utile chiarire la polemica che dura da anni.


Voglio avanzare, per prima la mia proposta sulla nuova politica immobiliare che parte, come stanno facendo diversi Paesi europei, affrontando alla radice il problema del consumo di suolo; ma non senza metterlo a confronto con l’altrettanto grave problema relativo al patrimonio edilizio nazionale. Il consumo di suolo, cioè la sottrazione di aree agricole e boschive destinate ad uso urbano, va in primo luogo liberato dall’approccio ideologico; che è arrivato perfino ad ingigantire i dati reali, quasi che questi non fossero abbastanza gravi. 

Secondo l’Atlante del consumo di suolo, pubblicato a Bologna dal Laboratorio Urbano, si tratta al 2011 di 20.300 ha. di aree non più extraurbane, che rappresentano il 6,7% del territorio nazionale; non molto di più di quanto calcolato dal Corine Land Cover.


L’uso agricolo e boschivo va, però, esaminato criticamente; perché la politica agricola europea molto discutibile, va corretta a fondo, riducendone le caratteristiche attuali fortemente idroesigenti e trasformando la sua dipendenza dal sistema distributivo, che allontana in modo eccessivo la produzione dal consumo. Non senza rivalutare in generale la grande importanza ambientale e idrogeologica del territorio extraurbano. Purtroppo, assai spesso, la spinta a ridurre il consumo di suolo è stata utilizzata in Italia per favorire la rendita fondiaria, diffondendo la pratica della “densificazione urbana”; che si è tradotta di fatto in un aumento della densità edilizia e al limite nella proliferazione dei grattacieli, ai quali non corrisponde mai una contemporanea cessione di suolo verde permeabile, a fronte del nuovo volume concentrato in altezza.


Alternativa alla densificazione è, invece, la “rigenerazione urbana”; cioè la pratica di intervenire sulla città esistente, migliorandola nelle sue parti degradate, a partire dalle cosiddette “aree dismesse”, cioè fabbriche abbandonate, scali ferroviari inutilizzati, caserme in disuso e così via. 
E allora la difesa delle aree inedificate prossime alle città andrà garantita per legge, con una forte imposizione fiscale sui terreni vergini che la legge dovesse esentare dal nuovo vincolo. 

Ma il provvedimento contro il consumo di suolo non sarà, però, tale da stimolare la ripresa della attività edilizia dal punto di vista produttivo e occupazionale, creando così un nuovo regime immobiliare. Infatti, troppo spesso, lamentando il consumo di suolo ci si dimentica di analizzare i dati sul patrimonio edilizio, che sono altrettanto gravi.

Infatti se l’espansione urbana esasperata ha consumato largamente le campagne, la crescita del patrimonio edilizio non è stata meno patologica. Nel 1951 in Italia 47 milioni di abitanti disponevano appena di 37 milioni di stanze; ma dopo sessanta anni nel 2011, gli abitanti cresciuti a 60 milioni disponevano di ben 116 milioni di stanze; due stanze a persona, il che francamente non è poco. Dunque, mentre la popolazione era aumentata del 27%, il patrimonio edilizio era cresciuto addirittura del 213%; si deve allora chiedere di arrestare, oltre al consumo di suolo, anche il “consumo edilizio”.

Anche perché, mentre durante l’espansione i componenti delle famiglie erano calati progressivamente, spesso ad un solo componente, la dimensione degli alloggi realizzati era rimasta assai elevata; al punto che più di un terzo delle abitazioni oggi esistenti sono a 5 o più stanze, spingendo il mercato verso una domanda di nuovi alloggi molto piccoli, mentre il patrimonio resta formato di alloggi troppo grandi. In sostanza lo stock abitativo, già indubbiamente eccessivo, è ancora composto di alloggi molto grandi, a fronte di famiglie sempre più piccole.

E allora non basta ridurre drasticamente il consumo di suolo, utilizzando per la nuova edilizia le aree dismesse esistenti nelle città, ma bisogna anche spingere la rigenerazione a frazionare i molti alloggi troppo grandi; con l’obbiettivo di aumentare il numero degli alloggi, senza costruire nuovi edifici, soddisfacendo così la domanda di piccoli alloggi del mercato, senza ridurre le stanze che restano sovrabbondanti. Offrendo anche in tal modo una valida occasione produttiva, alle migliaia di piccole e medie aziende senza lavoro, che sono le più adatte per questi interventi da realizzare capillarmente nelle città.


Studiando anche i modi per intervenire sulle case da frazionare, nel tempo più breve possibile, per vincere le resistenze dei proprietari a fare i lavori, magari senza abbandonare l’alloggio; sostenendo, quindi, questa politica con rilevanti sgravi fiscali e con un diffuso credito agevolato. Basterà spingere al frazionamento una quota anche relativa dei molti alloggi troppo grandi, per creare un mercato del tutto nuovo, perché fino ad oggi rivolto a nuovi alloggi su aree inedificate. In conclusione, insieme al consumo di suolo, bisogna combattere anche il consumo edilizio, trasformando per intero il vecchio regime immobiliare.

Se la rigenerazione urbana e il frazionamento di una parte degli alloggi troppo grandi, sembra la politica necessaria a far decollare un nuovo regime immobiliare, la trasformazione del vecchio modello di pianificazione e attuazione che in Italia non siamo riusciti a cambiare in mezzo secolo, genera da tempo una polemica che desidero chiarire. Perché questa polemica disciplinare non sembra compresa dalla politica e dalla società, che invece di provvedere alla riforma, mostrano di attribuire proprio agli urbanisti la responsabilità di aver eliminato l’urbanistica dai problemi importanti per il Paese.


Bisogna ricordare che la riforma urbanistica proposta negli anni Sessanta per affrontare l’espansione delle città, se approvata avrebbe risolto il problema applicando il nuovo modello di pianificazione e attuazione alla legge vigente del 1942; infatti le poche città che hanno applicato la riforma volontariamente, hanno qualificato la propria espansione per circa un ventennio, mentre la grande maggioranza delle città che non l’hanno fatto, sono cresciute all’insegna della rendita urbana.

Con gli anni Ottanta, però, la condizione di partenza è cambiata, perché la generazione urbanistica è passata dall’espansione alla trasformazione, con una crescita della rendita differenziale su quella assoluta; ma contemporaneamente sentenze della Corte Costituzionale favorevoli alla proprietà immobiliare e i successivi adeguamenti legislativi, hanno radicalmente modificato il quadro iniziale della legge generale del 1942. Facendo così cessare le condizioni giuridiche che avevano reso valida la riforma e rendendo a questo punto necessario un nuovo quadro giuridico, che fosse adeguato al nuovo regime immobiliare.

Infatti con la nuova situazione, le previsioni edificatorie private dei piani, restavano direttamente cogenti e realizzabili senza alcuna scadenza, ma le previsioni pubbliche erano, invece, obbligate ora a realizzarsi entro 5 anni, utilizzando espropri dai costi ormai insostenibili per i Comuni. Con il risultato che la città privata era costruita a piacimento e quella pubblica restava sulla carta ed era addirittura cancellata dopo 5 anni; di conseguenza l’unico modo che restava ai Comuni per realizzare piccole parti di città pubblica senza i finanziamenti per gli ormai costosissimi espropri, era quello di barattare con i privati l’offerta di nuove edificazioni private aggiuntive rispetto al piano, allo scopo di ottenere in cambio la cessione di aree di uso pubblico e la costruzione delle relative opere. Cioè un vero e proprio mercimonio delle scelte di piano, che naturalmente va ad esclusivo vantaggio della rendita urbana e ha preso il nome di “urbanistica contrattata”.

E proprio per combattere questa patologica situazione l’Istituto Nazionale di Urbanistica nel 1995, presenta un progetto di nuova riforma urbanistica, basato su un modello di pianificazione e attuazione completamente diverso da quello degli anni Sessanta. Il nuovo modello elimina giuridicamente la prescrittività del piano generale che diventa di puro indirizzo, mentre le attuazioni selezionate per il breve periodo, sia private che pubbliche, sono affidate ad un piano operativo e scadono dopo 5 anni; mentre le previsioni edificatorie private scelte dal piano, sono attribuite in cambio della cessione gratuita di tutte le aree e di parte delle opere per la città pubblica.

Questa soluzione ripristina la parità di condizioni fra previsioni private e pubbliche del piano; mentre evitando le previsioni prescrittive di lungo periodo, mette fine alla necessità di continue varianti. E cancellando giuridicamente la prescrittività del piano generale, elimina il cosiddetto “residuo di piano”; cioè la ingombrante eredità della previsioni private non scadute e sempre valide, che ogni vecchio piano consegna al nuovo. Infine, garantisce sempre la attuazione della città pubblica, applicando la cessione perequativa gratuita regolamentata a tutte le previsioni private; evitando in genere gli espropri dai costi ormai insopportabili, che restano utilizzabili soltanto per acquisire palazzi storici o aree periurbane per infrastrutture.


Sulla nuova riforma urbanistica nasce, però, una polemica disciplinare che divide il fronte degli urbanisti, fra quelli che scelgono una posizione riformista e quelli che io definisco massimalisti. E purtroppo i governi di centrosinistra, anche in questo caso, evitano di schierarsi, facendo fallire ancora una volta la riforma urbanistica; e negli anni successivi, per non prendere posizione, finiscono per cancellare del tutto la gestione del territorio dai temi cruciali per il Paese. Affrontata soltanto con leggi regionali, in genere non molto migliori della vecchia legge nazionale, mai di fatto abrogata.

Quanto al merito della questione, mi limito a ripetere ciò che l’INU ed io stesso sosteniamo da anni. Da un lato la necessità di eliminare con la prescrittività del piano generale, la concezione di un piano disegnato quale immutabile per 15, 20 o 40 anni, come è successo per Roma; ripristinando al contrario il master plan programmatico di origine razionalista, dal quale selezionare invece ogni 5 anni gli interventi più urgenti ed attuali. Dall’altro la necessità di cancellare l’uso generale dell’esproprio, il cui costo ai prezzi correnti è insostenibile dai Comuni e serve soltanto a remunerare la rendita urbana; sostituendolo con la perequazione compensativa regolamentata, che equamente chiede alla proprietà immobiliare di contribuire gratuitamente in aree e opere alla realizzazione della città pubblica, in cambio della edificabilità che il Comune concede con il piano. 


Si tratta, insomma, di applicare un modello urbanistico simile a quello della legge regionale della Emilia Romagna, che è quello migliore . Se ad esempio nella vicenda del piano di Roma fosse stato in vigore questo modello, non sarebbe neppure nata la discussione sulle dimensioni del nuovo piano; perché la legge riformista avrebbe eliminato giuridicamente il residuo del piano precedente, formulando un piano generale di indirizzo per il medio periodo e affidando ad un piano operativo le sole previsioni quinquennali ritenute adeguate. E le nuove previsioni operative avrebbero fornito gratuitamente le aree e le opere della città pubblica, con la cessione perequativa regolamentata.


La polemica disciplinare, purtroppo, non ha aiutato la politica a prendere le decisioni che le competono; anche perché i massimalisti hanno opposto al modello riformista semplice ed efficiente, soltanto la ostinata difesa del vecchio modello che proprio non funziona ed è stato peggiorato dalle modifiche introdotte dalla Corte Costituzionale. Resta il fatto che anche in questo caso, la politica non ha saputo fare le sue scelte.

Dal canto loro, gli urbanisti che si oppongono alla soluzione riformista, non potendo difendere l’uso odierno dell’esproprio, hanno descritto falsamente la perequazione compensativa regolamentata – cioè stabilita a priori dal piano, senza nessuna contrattazione —, sostenendo che si tratta dell’urbanistica contrattata; che, invece, è proprio il frutto perverso del vecchio modello di piano da loro sostenuto, che fatica a morire e sopravvive persino in qualche caso in Emilia Romagna, malgrado la nuova legge.. Mentre per difendere la ormai ingiustificabile prescrittività sine die delle previsioni private del vecchio piano, hanno usato polemicamente la vicenda del piano di Roma; nella quale il Comune è stato costretto ad operare con la vecchia legge regionale imposta dai massimalisti, con un risultato certamente meno efficace di quanto avrebbe permesso la legge riformista.

Una nuova polemica ha aperto il progetto di legge di stampo chiaramente riformista presentato recentemente in Parlamento, che affronta minuziosamente tutta la problematica del governo territoriale; c’è chi non l’ha neppure capito appieno, scambiandolo con una proposta neoliberista, altri vorrà approfittarne per introdurre emendamenti di destra da richiedere al governo delle larghe intese. Il rischio è quello di una trafila parlamentare senza fine, o peggio di un compromesso nefasto indotto dallo stallo politico; io credo, invece, che senza fare dell’antipolitica rifiutando polemicamente il testo onnicomprensivo, agli innovatori pragmatici dell’Istituto Nazionale di Urbanistica convenga, in attesa di dare battaglia sulla legge generale in Commissione, presentare subito una legge molto sintetica capace di sostituire immediatamente la ormai insopportabile, vecchia legge del 1942.

Una leggina con tre articoli essenziali, in grado di inquadrare almeno le leggi regionali, cresciute in completo disordine. Il primo articolo che renda il piano generale comunale non più prescrittivo, ma programmatico; il secondo che affidi l’attuazione degli interventi urgenti ad un piano operativo con scadenza quinquennale; e un terzo che garantisca la città pubblica usando la perequazione urbanistica, con la cessione gratuita delle aree e delle opere, da parte delle proprietà immobiliari alle quali il piano comunale attribuisce la edificabilità. Sollecitando con decisione la politica ad occuparsi senza attendere oltre, di un limitato, ma indispensabile e urgente strumento urbanistico e chiedendo ancora agli urbanisti massimalisti, di misurarsi con le effettive proposte di riforma e non con le proprie visioni polemiche.



Riforma urbanistica, una storia complicata

13/02/2013
In un articolo l’ultima presa di posizione Inu e la storia recente, complicata, dei tentativi di varare una riforma urbanistica. Tanti testi e proposte, nessun risultato. L‘articolo di Edilportale.com

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