di Sabrina Iommi - Pubblicato su La Voce .info il 25 febbraio 2014
l disegno di legge Delrio propone una definizione di città
metropolitana che difficilmente può garantire gli obiettivi che la
riforma si prefigge. Un criterio alternativo invece ridisegna i comuni,
riducendone drasticamente il numero. La frammentazione amministrativa e
la competitività del paese.
PERCHÉ RIVEDERE GLI ASSETTI ISTITUZIONALI
L’iter di approvazione della legge Delrio
“Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e
fusioni di comuni” ha riaperto il dibattito sulla questione ormai più
che ventennale dell’individuazione e delimitazione delle città metropolitane
in Italia. Per valutare se e quanto la proposta sia adeguata, occorre
ripartire da quelli che in generale devono essere gli obiettivi della
revisione degli assetti istituzionali.
L’architettura istituzionale, vale a dire l’insieme dei diversi enti, ciascuno con i propri confini e con le proprie funzioni è finalizzata a creare un contesto, fatto di regole certe, ma anche di servizi di supporto e di strategie di investimento, in cui le imprese possano accrescere la loro efficienza e le famiglie il loro benessere. Come insegna l’economia istituzionale, le istituzioni non sono necessariamente efficienti, possono ridurre o accrescere i costi di transazione, così condizionando la performance complessiva dell’economia e il benessere della collettività. (1)
L’architettura istituzionale, vale a dire l’insieme dei diversi enti, ciascuno con i propri confini e con le proprie funzioni è finalizzata a creare un contesto, fatto di regole certe, ma anche di servizi di supporto e di strategie di investimento, in cui le imprese possano accrescere la loro efficienza e le famiglie il loro benessere. Come insegna l’economia istituzionale, le istituzioni non sono necessariamente efficienti, possono ridurre o accrescere i costi di transazione, così condizionando la performance complessiva dell’economia e il benessere della collettività. (1)
Ogni ipotesi di revisione degli assetti istituzionali deve quindi porsi come fine quello di ridurre i costi di transazione, in modo da I) ritrovare la coerenza tra confini reali delle comunità da governare e quelli formali delle istituzioni deputate a prendere le decisioni collettive, II) ridurre i tempi della decisione pubblica, anche limitando il numero dei decisori coinvolti, III) sfruttare economie di scala e di scopo, IV) selezionare e concentrare gli investimenti.
CHE COSA PREVEDE IL DDL DELRIO
Il disegno di legge Delrio permette di raggiungere questi obiettivi?
La versione all’esame del Senato (A.S.1212) appare decisamente
insoddisfacente per almeno tre motivi:
Primo, perché prevede l’automatica trasformazione degli interi territori provinciali al cui interno è stato individuato ex lege un polo di rango metropolitano, in città metropolitana, senza alcuna considerazione per criteri più oggettivi, quali i livelli di popolamento e urbanizzazione, attrazione di flussi di pendolarismo e di mobilità in generale, presenza di funzioni produttive di pregio.
Secondo, perché introduce la possibilità di accrescere a dismisura il numero delle città metropolitane, indebolendo così il concetto stesso di poli metropolitani come aree strategiche per il rilancio della competitività, sulle quali concentrare le risorse attivabili con il nuovo ciclo di programmazione dei fondi strutturali europei.
Terzo, perché attribuisce di fatto al nuovo ente le stesse funzioni delle province, con poche competenze aggiuntive e prevede un meccanismo di governo “debole”, affidato a un consiglio metropolitano, formato da un sottogruppo di sindaci e consiglieri di tutti gli enti coinvolti.
Il disegno di legge propone sostanzialmente una città metropolitana che è “luogo di concertazione” di comuni, ognuno dei quali resta titolare delle proprie funzioni sul proprio territorio. Per una riforma, il cui inizio può essere fatto risalire al 1990 (legge 142) e il cui obiettivo è di rilanciare la competitività del paese attraverso il miglioramento dell’efficienza istituzionale, è decisamente un risultato modesto.
Primo, perché prevede l’automatica trasformazione degli interi territori provinciali al cui interno è stato individuato ex lege un polo di rango metropolitano, in città metropolitana, senza alcuna considerazione per criteri più oggettivi, quali i livelli di popolamento e urbanizzazione, attrazione di flussi di pendolarismo e di mobilità in generale, presenza di funzioni produttive di pregio.
Secondo, perché introduce la possibilità di accrescere a dismisura il numero delle città metropolitane, indebolendo così il concetto stesso di poli metropolitani come aree strategiche per il rilancio della competitività, sulle quali concentrare le risorse attivabili con il nuovo ciclo di programmazione dei fondi strutturali europei.
Terzo, perché attribuisce di fatto al nuovo ente le stesse funzioni delle province, con poche competenze aggiuntive e prevede un meccanismo di governo “debole”, affidato a un consiglio metropolitano, formato da un sottogruppo di sindaci e consiglieri di tutti gli enti coinvolti.
Il disegno di legge propone sostanzialmente una città metropolitana che è “luogo di concertazione” di comuni, ognuno dei quali resta titolare delle proprie funzioni sul proprio territorio. Per una riforma, il cui inizio può essere fatto risalire al 1990 (legge 142) e il cui obiettivo è di rilanciare la competitività del paese attraverso il miglioramento dell’efficienza istituzionale, è decisamente un risultato modesto.
UN CRITERIO ALTERNATIVO
La proposta che segue riprende sostanzialmente l’approccio sviluppato in un precedente articolo, secondo il quale la revisione dell’architettura del governo locale deve partire dal livello più basso,
riadeguando cioè le unità territoriali elementari, i comuni, alle
comunità contemporanee reali, approssimabili con i bacini del
pendolarismo quotidiano (i Sistemi locali del lavoro di fonte Istat). La
trasformazione comporterebbe il passaggio dagli attuali 8mila a 686 comuni:
con una sola operazione si otterrebbe così l’adattamento del territorio
reale con quello istituzionale, il raggiungimento di dimensioni
operative adeguate, il superamento della necessità di un livello di
governo intermedio come quello provinciale, la riduzione della
frammentazione del processo decisionale e dei tempi connessi.
Partendo dalle stesse unità territoriali elementari e selezionando una serie di caratteristiche tipicamente urbane e metropolitane (dimensione demografica ed economica, qualità e varietà delle funzioni svolte, densità e contiguità dell’urbanizzato), si potrebbe quindi individuare con criteri più prettamente “scientifici” la gerarchia dei diversi poli urbani. (2)
Partendo dalle stesse unità territoriali elementari e selezionando una serie di caratteristiche tipicamente urbane e metropolitane (dimensione demografica ed economica, qualità e varietà delle funzioni svolte, densità e contiguità dell’urbanizzato), si potrebbe quindi individuare con criteri più prettamente “scientifici” la gerarchia dei diversi poli urbani. (2)
La tabella 1 riporta la parte alta della gerarchia urbana italiana costruita con quei criteri. Le aree metropolitane vengono distinte in due gruppi, diversi per dimensione demografica (grandi e medi) e per ciascuna vengono illustrate alcune caratteristiche, riassunte poi in un indicatore sintetico di rango urbano, che “premia” solo poche polarità urbane situate nel Centro-Nord del paese. Di fatto, possono essere considerate realtà metropolitane solo quelle con valori elevati dell’indice sintetico di rango urbano (ad esempio, maggiore di 2).
Le città metropolitane ammesse dal disegno di legge Delrio sono invece quelle riportate nella tabella 2.
L’individuazione delle città metropolitane della proposta Delrio
risulta eccessivamente inclusiva, perché ammette al rango metropolitano
anche polarità che alla scarsa dimensione demografica uniscono la
debolezza della struttura urbana: il caso più eclatante è quello di
Reggio Calabria, tuttavia anche il rango urbano di Padova è maggiore di
quello di Venezia e i confini territoriali dei Sll usati nel nostro
esercizio non coincidono con quelli provinciali presi a riferimento dal
disegno di legge. L’individuazione delle aree risulta dunque un
ulteriore punto debole della proposta Delrio, che va a sommarsi a quelli
ricordati in precedenza.
Se l’obiettivo generale è quello di rendere più competitivo il paese attraverso la riforma delle sue istituzioni, è evidente che la frammentazione amministrativa va ridotta per tutto il territorio complessivamente, agendo dunque sulla revisione dei confini comunali. Se poi permane il bisogno di assegnare lo status di città metropolitana per conferire funzioni aggiuntive a polarità urbane di particolare rilievo strategico (una sorta di comuni “speciali”), il riconoscimento deve essere ovviamente attribuito a un gruppo molto ristretto di città, con caratteristiche adeguate.
Diversamente, se si parla di politiche per lo sviluppo delle aree urbane,
meritano di essere articolate e graduate sulla base dell’importanza e
delle specificità di ciascun polo, ampliando perciò la platea dei
beneficiari per includere anche alcune polarità di medie dimensioni, che
ospitano funzioni urbane di pregio e che caratterizzano il tradizionale
assetto policentrico del paese.
(1) North D. C. (1994), Istituzioni, cambiamento istituzionale, evoluzione dell’economia, Il Mulino, Bologna
(2) Iommi S., Marinari D. (2013), “Un approccio
multicriterio per l’individuazione della gerarchia urbana in Italia e
l’elaborazione di territory-specific policies”, XXXIV Conferenza italiana di scienze regionali, Palermo 2-3 settembre; e IV EuGeo Congress, Roma 5-7 settembre.
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