di Paolo Dallasta e Serena Righini 23 Gennaio 2014
pubblicato su Eddyburg
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Una critica serrata della proposta governativa sulla nuova organizzazione dei poteri locali: l'ottica miope e avara della "spendig review" ha indotto a eludere un problema essenziale per il corretto funzionamento del territorio, ossia la redistribuzione delle funzioni tra i vari enti amministrativi.
La recente approvazione alla Camera del disegno di legge 1542 del 20/08/2013 in materia di Città Metropolitane, Province, Unioni e Fusioni dei Comuni è il quarto tentativo in tre anni volto a riformare il sistema degli enti locali. Il dibattito attorno alla nuova legge è purtroppo stato monopolizzato dal tema della spending review, che ha messo in secondo piano la necessità, non più eludibile, di attuare una seria revisione dell’intera architettura istituzionale italiana, nella quale funzioni e competenze spesso si sovrappongono. Si è enfatizzato il tema mediatico del risparmio di risorse pubbliche e di poltrone politiche, sorvolando invece sulla redistribuzione delle funzioni che si potrebbe realizzare con il nuovo assetto istituzionale.
La proposta legislativa si basa, essenzialmente, su tre pilastri:
- istituzione delle Città Metropolitane;
- ridefinizione delle Province, trasformate in enti di secondo livello con progressivo svuotamento di funzioni a favore delle Città Metropolitane o dei Consorzi di Comuni;
- disciplina in materia di unioni e fusioni per i piccoli Comuni.
La proposta legislativa si basa, essenzialmente, su tre pilastri:
- istituzione delle Città Metropolitane;
- ridefinizione delle Province, trasformate in enti di secondo livello con progressivo svuotamento di funzioni a favore delle Città Metropolitane o dei Consorzi di Comuni;
- disciplina in materia di unioni e fusioni per i piccoli Comuni.
La somma di queste azioni produrrebbe, secondo le stime effettuate dal ministero, risparmi da uno a due miliardi di euro e la cancellazione di oltre 5.000 cariche politiche.
Ma vi è un altro aspetto davvero criticabile: per chi si occupa di pianificazione territoriale il disegno di Delrio appare, per ora, come una grande occasione mancata. Infatti, è proprio nel campo della pianificazione territoriale e urbanistica che i problemi generati da sovrapposizioni e conflitti di competenza tra diversi livelli amministrativi sono più evidenti.
Da tempo è necessaria una revisione dell’intero sistema di pianificazione, che è ancora ispirato alla legge fondamentale del 1942.
Uno dei principali problemi è la debolezza della pianificazione urbanistica d’area vasta che sarebbe la sola in grado di elaborare politiche di coordinamento alla scala territoriale adeguata delle scelte locali. Tuttavia, proprio l’obiettivo di superare la frammentazione e la settorialità delle competenze urbanistiche tra i diversi livelli amministrativi rischia di annullare la possibilità di realizzare un nuovo dispositivo di pianificazione di area vasta.
Con la riforma del titolo V della Costituzione le principali competenze urbanistiche sono in capo ai Sindaci secondo il principio di sussidiarietà, il quale, nella prassi, si è trasformato in un eccesso di municipalismo egoistico dagli esiti deludenti: a nostro avviso il concetto di sussidiarietà è stato interpretato più come un processo di decentramento funzionale e decisionale che non come l’occasione per sperimentare forme innovative e più efficienti di governo del territorio alla scala pertinente.
Molto spesso il livello amministrativo funzionalmente più vicino ai cittadini è quello comunale, il quale, pur detenendo le principali competenze urbanistiche, non è sempre stato in grado di garantire una gestione efficiente dei temi spaziali in un’ottica sovralocale, portando quindi ad un’interpretazione distorta della sussidiarietà.
Da qui la necessità di un ente intermedio, che sia in grado di governare le tematiche dell’area vasta quali trasporti, ambiente, pianificazione territoriale, recependo così un altro principio fondamentale come quello dell’adeguatezza.
Purtroppo la nuova legge non affronta in modo convincente queste problematiche.
Le città metropolitane saranno istituzioni che manterranno tutte le competenze delle Province alle quali subentreranno e a cui andranno ad aggiungersi le seguenti funzioni:
- elaborazione e aggiornamento annuale di un piano strategico del territorio metropolitano, quale strumento di indirizzo;
- pianificazione territoriale generale, comprese le strutture di comunicazione, le reti di servizi e delle infrastrutture di scala metropolitana;
- promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale;
- promozione e coordinamento dei sistemi di informatizzazione e digitalizzazione.
Le restanti Province, che dal giugno 2014 si trasformeranno in enti di secondo livello, diventeranno strutture leggere, i cui organismi (Presidente e Consiglio Provinciale) saranno eletti dai Sindaci e dai Consiglieri Comunali dei comuni ricadenti nel territorio provinciale, fino alla loro definitiva abolizione che dovrà avvenire con legge costituzionale.
Il disegno di legge attribuisce alle Province le seguenti funzioni fondamentali:
- pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché valorizzazione dell’ambiente;
- pianificazione dei servizi di trasporto;
- programmazione della rete scolastica;
- assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali.
La disciplina sulle unioni e fusione dei comuni non si discosta molto da quella introdotta dal precedente governo Monti e prevede due tipologie di intercomunalità. La prima, rivolta a tutti i comuni, consiste nell’esercizio associato facoltativo di specifiche funzioni. La seconda, rivolta ai comuni con meno di 5.000 abitanti (3.000 se montani), consiste nell’esercizio obbligatorio delle funzioni fondamentali, attraverso Unioni o Convenzioni con un limite demografico di almeno 10.000 abitanti. La legge ha previsto la proroga al 31/12/2014 per consentire gli adempimenti ai piccoli comuni che dovranno consorziare le funzioni fondamentali, ma non prevede particolari o innovative forme di incentivi per spingere verso processi di cooperazione intercomunale che superino la dimensione strettamente gestionale per una valenza di natura maggiormente strategica.
Le nuove Unioni saranno a loro volta enti di secondo livello, composti dai membri eletti nei rispettivi consigli comunali. La legge, infine, introduce forme di accorpamento tra più comuni per fusione o incorporazione.
L’intercomunalità rimane un fenomeno diffuso a macchia di leopardo sul territorio italiano e spesso dai confini opportunistici non dando l’opportunità di sfruttare appieno le potenzialità della cooperazione.
Tutto ciò è l’esito di un mancato coinvolgimento dei comuni più grandi nei processi associativi, che risultano sviluppati ad una scala pertinente solo nelle Regioni in cui vi è una specifica legislazione a supporto della collaborazione intermunicipale.
Il nuovo assetto istituzionale attribuisce quindi tutte le competenze di area vasta a enti di secondo livello. Ma con quale legittimità e autorevolezza?
La funzione di coordinamento territoriale, fino ad oggi esercitata da un ente amministrativo superiore secondo un approccio sovracomunale, passerà ad essere di competenza di un ente non elettivo, nel quale le scelte di area vasta saranno oggetto di una contrattazione tra i Sindaci.
Tale differenza non è secondaria poiché appare evidente che, se la pianificazione dovesse diventare una dinamica esclusivamente negoziale, il rischio che a prevalere siano i comuni (e gli interessi) più forti sarà molto elevato. Ne risulterebbero avvantaggiati, quindi, i comuni maggiori, innescando meccanismi che potrebbero facilmente generare territori a doppia velocità, in completa antitesi rispetto all’obiettivo di coesione territoriale, introdotto dall’Unione Europea nel trattato di Lisbona del 2007 e articolato dal Rapporto Europa 2020, che riconosce un ruolo determinante a un territorio integrato, equilibrato e solidale.
Un’ulteriore indicazione dell’Unione Europea per rilanciare e riqualificare le regioni urbane ricorrendo a strategie di pianificazione integrata alla scala sovracomunale e metropolitana, è contenuta nella Carta di Lipsia del 2007[1], che indica, tra gli obiettivi dell’attività di pianificazione:
- la definizione di obiettivi di sviluppo coerenti e realistici per l’area urbana e lo sviluppo di una visione per la città;
- il coordinamento di piani e politiche locali e settoriali e la definizione di criteri per l’utilizzazione dei fondi pubblici e privati nella loro allocazione spaziale;
- la cooperazione fra settore pubblico e privato nell’utilizzo dei Fondi Strutturali;
- la sinergia a livello locale ma anche a livello della città-regione e il coinvolgimento dei cittadini e degli attori che possono contribuire a dar forma alla qualità futura economica, sociale e ambientale dei territori;
- la lotta alla “speculazione” edilizio-immobiliare e al consumo di suolo.
Non trovano un riscontro convincente nel testo di legge di Delrio molti di questi obiettivi, come:
- l’esigenza di formulare nuove forme di governance multilivello;
- l’importanza dei processi negoziali pubblico e privato nel perseguire forme di coordinamento per il governo locale;
- l’importanza dei processi partecipativi per il rilancio dell’attività pianificatoria
- pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché valorizzazione dell’ambiente;
- pianificazione dei servizi di trasporto;
- programmazione della rete scolastica;
- assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali.
La disciplina sulle unioni e fusione dei comuni non si discosta molto da quella introdotta dal precedente governo Monti e prevede due tipologie di intercomunalità. La prima, rivolta a tutti i comuni, consiste nell’esercizio associato facoltativo di specifiche funzioni. La seconda, rivolta ai comuni con meno di 5.000 abitanti (3.000 se montani), consiste nell’esercizio obbligatorio delle funzioni fondamentali, attraverso Unioni o Convenzioni con un limite demografico di almeno 10.000 abitanti. La legge ha previsto la proroga al 31/12/2014 per consentire gli adempimenti ai piccoli comuni che dovranno consorziare le funzioni fondamentali, ma non prevede particolari o innovative forme di incentivi per spingere verso processi di cooperazione intercomunale che superino la dimensione strettamente gestionale per una valenza di natura maggiormente strategica.
Le nuove Unioni saranno a loro volta enti di secondo livello, composti dai membri eletti nei rispettivi consigli comunali. La legge, infine, introduce forme di accorpamento tra più comuni per fusione o incorporazione.
L’intercomunalità rimane un fenomeno diffuso a macchia di leopardo sul territorio italiano e spesso dai confini opportunistici non dando l’opportunità di sfruttare appieno le potenzialità della cooperazione.
Tutto ciò è l’esito di un mancato coinvolgimento dei comuni più grandi nei processi associativi, che risultano sviluppati ad una scala pertinente solo nelle Regioni in cui vi è una specifica legislazione a supporto della collaborazione intermunicipale.
Il nuovo assetto istituzionale attribuisce quindi tutte le competenze di area vasta a enti di secondo livello. Ma con quale legittimità e autorevolezza?
La funzione di coordinamento territoriale, fino ad oggi esercitata da un ente amministrativo superiore secondo un approccio sovracomunale, passerà ad essere di competenza di un ente non elettivo, nel quale le scelte di area vasta saranno oggetto di una contrattazione tra i Sindaci.
Tale differenza non è secondaria poiché appare evidente che, se la pianificazione dovesse diventare una dinamica esclusivamente negoziale, il rischio che a prevalere siano i comuni (e gli interessi) più forti sarà molto elevato. Ne risulterebbero avvantaggiati, quindi, i comuni maggiori, innescando meccanismi che potrebbero facilmente generare territori a doppia velocità, in completa antitesi rispetto all’obiettivo di coesione territoriale, introdotto dall’Unione Europea nel trattato di Lisbona del 2007 e articolato dal Rapporto Europa 2020, che riconosce un ruolo determinante a un territorio integrato, equilibrato e solidale.
Un’ulteriore indicazione dell’Unione Europea per rilanciare e riqualificare le regioni urbane ricorrendo a strategie di pianificazione integrata alla scala sovracomunale e metropolitana, è contenuta nella Carta di Lipsia del 2007[1], che indica, tra gli obiettivi dell’attività di pianificazione:
- la definizione di obiettivi di sviluppo coerenti e realistici per l’area urbana e lo sviluppo di una visione per la città;
- il coordinamento di piani e politiche locali e settoriali e la definizione di criteri per l’utilizzazione dei fondi pubblici e privati nella loro allocazione spaziale;
- la cooperazione fra settore pubblico e privato nell’utilizzo dei Fondi Strutturali;
- la sinergia a livello locale ma anche a livello della città-regione e il coinvolgimento dei cittadini e degli attori che possono contribuire a dar forma alla qualità futura economica, sociale e ambientale dei territori;
- la lotta alla “speculazione” edilizio-immobiliare e al consumo di suolo.
Non trovano un riscontro convincente nel testo di legge di Delrio molti di questi obiettivi, come:
- l’esigenza di formulare nuove forme di governance multilivello;
- l’importanza dei processi negoziali pubblico e privato nel perseguire forme di coordinamento per il governo locale;
- l’importanza dei processi partecipativi per il rilancio dell’attività pianificatoria
Alla luce di questi documenti europei è ancora più evidente come l’occasione di riforma istituzionale potrebbe rappresentare un’importante opportunità non solo per riconfigurare nuovi modelli di governance in grado di migliorare l’efficienza e la qualità delle politiche pubbliche, ma anche per promuovere una redistribuzione delle competenze di pianificazione in grado di rispondere alle nuove esigenze dei contesti urbani e periurbani.
Contenimento del consumo di suolo, rigenerazione urbana, valorizzazione ambientale, infrastrutturazione, edilizia sociale sono temi che richiedono una nuova stagione di politiche pubbliche di scala necessariamente territoriale e sovralocale.
Eppure sarebbe bastato osservare con più attenzione l’esperienza di altri paesi europei, come la Francia, che proprio in questi mesi sta approvando una legge sull’istituzione dei governi metropolitani (Loi de modernisation de l’action publique territoriale et d’affirmation des métropoles), dopo oltre quarant’anni di serio dibattito nazionale e di politiche che hanno favorito la cooperazione intercomunale.
La tradizione alla volontarietà intercomunale, nell’esperienza francese, ha reso possibile correggere una gerarchia urbana fortemente squilibrata, garantendo efficienza territoriale alle politiche statali.
Nei territori a geometria variabile così formatisi, si è sviluppato anche un forte senso identitario e di cittadinanza che travalica i confini comunali.
In questo modo si sono individuate forme associative diverse, di natura metropolitana o di medi e piccoli comuni, che rappresentano gli ambiti di governo pertinenti e davvero sovracomunali, particolarmente efficienti nel governo dei processi spaziali e sociali (per esempio nei progetti e nella messa in comune di una parte cospicua delle entrate fiscali).
Inoltre, la legislazione francese ha sempre richiesto inderogabilmente prove di effettiva volontà di superamento dell’egoismo municipale e del saper operare attraverso visioni e strategie.
In Francia, nel 2014, si dovrebbero votare per la prima volta a suffragio universale i rappresentanti delle associazioni volontarie intercomunali, le Communautés (enti intercomunali ai quali sono stati attribuiti anche funzioni di coordinamento), realizzando finalmente il sogno di Jacques Delors per introdurre partecipazione, e quindi democrazia, nei processi decisionali, secondo il principio per cui una corretta sussidiarietà garantisce gli interessi della collettività di scala vasta che altrimenti rischiano di essere trascurati dagli eccessi di localismo.
In Italia, purtroppo, si punta invece alla rinuncia di quote di rappresentanza democratica in nome di un presunto risparmio economico che non solo rischia di non risolvere i problemi degli enti locali ma reitererà il sistema di relazioni centro/periferia che è alla base della frammentazione, anche territoriale, di gran parte del nostro Paese.
Il rischio di questa riforma è quello di accentrare scelte e investimenti principalmente su due attori, i grandi comuni capoluogo e le Regioni, invece di esaltare le autonomie locali e progredire nella sussidiarietà.
Questo in netto contrasto non solo con le direttive che provengono dall’Europa ma anche con la tradizione italiana, la quale insegna che anche i contesti periferici e periurbani non sono subalterni alle realtà metropolitane (basti pensare alla tradizione dei distretti industriali).
Per superare le attuali Province, delle quali non si negano i confini spesso asfittici e incoerenti, sarebbe stato forse più opportuno e lungimirante guardare alle esperienze estere per realizzare un disegno di legge più ambizioso sull’intercomunalità, incentivando la cooperazione tra i comuni e permettendo geometrie variabili che ben si adattano a territori coerenti ed effettivi, individuando la scala di governo pertinente per ambiti metropolitani o periferici.
Sul modello francese, si potrebbero delineare quattro tipologie di associazioni intercomunali:
1. Unioni Metropolitane, per le maggiori aree metropolitane italiane;
2. Unioni Urbane, per le aree urbane di medie dimensioni;
3. Unioni Territoriali, per ambiti di comuni medio-piccoli e piccoli distanti dalle realtà precedenti;
4. Unioni Montane, per gli ambiti più periferici.
Queste Unioni potrebbero essere davvero il luogo della sperimentazione di nuovi sistemi di governo del territorio e della gestione dei servizi, immaginando anche organi di rappresentanza innovativi.
Un esempio: nelle Comunità di Valle della Provincia di Trento, il Presidente è eletto a suffragio universale, affiancato da un Consiglio dell’Unione in cui vi è una quota di consiglieri eletti direttamente e una quota in rappresentanza dei Comuni che costituiscono la Comunità.
Un’altra materia che potrebbe trovare nuove evoluzioni in questo quadro è quella fiscale, immaginando di trasformare una quota dell’IMU e degli oneri di urbanizzazione in una tassa intercomunale. In tal modo si realizzerebbe una innovativa forma di perequazione territoriale capace di orientare coerentemente le scelte di governo del territorio.
Con una scelta di questo tipo, si potrebbe creare un nuovo sistema di governance capace di sostituire progressivamente le province, delegando, in un modello ben più convincente di quello della pura sussidiarietà municipale, alcune funzioni fondamentali, come quella della pianificazione territoriale di coordinamento.
La cooperazione intercomunale permetterebbe, inoltre, di stabilire reti orizzontali tra territori, spezzando quella verticalità che l’attuale legge accentua e introducendo un principio di solidarietà territoriale che nel dibattito italiano è drammaticamente assente.
Si raggiungerebbe in questo modo un migliore equilibrio fra i poteri dei Comuni, che restano la cellula fondamentale del nostro ordinamento e primo luogo in cui si esercita la rappresentanza democratica, e l’ente competente per la pianificazione di area vasta, coniugando efficacemente i principi strettamente legati di sussidiarietà e di adeguatezza.
[1] La Carta di Lipsia, (Leipzig Charter on Sustainable European City), sottoscritta dai Ministri del territorio nel maggio del 2007, dichiara che ogni livello di governo – locale, regionale, nazionale ed europeo – ha responsabilità nei confronti del futuro delle città. Per rendere efficace tale modello di governance multilivello occorre migliorare il coordinamento delle politiche settoriali e sviluppare un nuovo senso di responsabilità nei confronti di una politica integrata di sviluppo urbano. La Carta impegna i sottoscrittori ad attivare un dibattito pubblico nei rispettivi stati su come integrare le strategie indicate nelle politiche locali, ad utilizzare strumenti integrati per l’elaborazione di progetti di sviluppo urbano e a promuovere l’elaborazione del necessario framework nazionale.
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