Il tema dello Statuto è sicuramente centrale poichè la sua stesura costituisce l'atto fondante della città metropolitana, definendone il funzionamento concreto. Per questo occorre definirne con grande attenzione i contenuti, a partire dal tema della rappresentatività dei cittadini che una interpretazione pedissequa della legge 56 potrebbe eccessivamente comprimere.
di
Sono al lavoro per redigere lo Statuto delle Città Metropolitane i
membri dei consigli eletti dai sindaci e consiglieri dei comuni
componenti la nuova istituzione. Il compito di scrivere uno statuto è un
atto fondante e di grande rilevanza costituzionale che non poteva non
essere affidato alla sovranità popolare e quindi al suffragio universale
con voto personale e libero, attraverso il sistema elettorale
proporzionale, l’unico a garantire una rappresentanza democratica
articolata e plurale. L’esclusione dei cittadini costituisce un vulnus gravissimo.
Stando così le cose, è ancora possibile correggere gli aspetti oligarchici e colmare la distanza tra società civile e casta politica? La risposta diventa positiva solo se si realizzano alcune condizioni preliminari e necessarie: apertura di spazi di partecipazione a gruppi/comitati/associazioni di cittadinanza attiva e ai corpi intermedi disponibili (forze sociali sindacali produttive ecc.), e accoglimento delle proposte coerenti con quelle parti della legge che vanno nella direzione di istituire la Città Metropolitana come organo democratico di governo locale e di un sistema equilibrato di Comuni.
Si tratta di riportare nell’alveo costituzionale la legge n. 56/2014. Ciò è forse possibile se si attuano quelle parti che prevedono: la riorganizzazione dei piccoli e piccolissimi comuni attraverso unioni e fusioni; l’elezione a suffragio universale del sindaco e del consiglio metropolitano, a condizione che si proceda ad “articolare il territorio del comune capoluogo in più comuni”. Superare da una parte la polverizzazione dei municipi e dall’altra il monocentrismo dei Capoluoghi contribuirebbe a far nascere sistemi equilibrati di Comuni delle aree metropolitane ed Enti di governo sovra-comunali (le Città Metropolitane) più vicini ai cittadini comunali e metropolitani e più adatti a rappresentare e amministrare i territori.
Occorre pensare e attuare un progetto strategico di riequilibrio urbano e di valorizzazione storico-ambientale, socio- economica e culturale del territorio dentro un sistema di governo fondato sui comuni e sulla loro collaborazione e solidarietà. Una Città Metropolitana costituita da Comuni autosufficienti, ma in rete con gli altri. Sistema di Comuni che si deve reggere sulle solide basi della partecipazione democratica e sugli spazi aperti alla discussione pubblica e alla consultazione (di natura anche deliberativa) su questioni di interesse generale e strategico: lavoro e diritti, riconversione ecologica dell’economia e riassetto idrogeologico e relativi impianti industriali e infrastrutture, pianificazione urbanistica, mobilità – inteso come diritto della persona – e trasporto pubblico, verde e parchi, rifiuti, energia, immigrazione e multiculturalità, servizi sociali e culturali, ecc.).
Questa prospettiva, davvero riformatrice , che rivitalizzerebbe e rinnoverebbe il tessuto della società e delle sue istituzioni di base – in sintonia perfetta con l’art. 5 della Costituzione (autonomie locali e decentramento) – potrebbe realizzarsi se si hanno la consapevolezza e la volontà politica di perseguire l’obiettivo di battere il disegno autoritario di rafforzare gli apparati centralistici a tutti i livelli e di mettere pesantemente in discussione i diritti sociali civili e politici.
Rinviando ad altro intervento riflessioni e proposte sull’articolazione in più comuni dei Capoluoghi, provo a soffermarmi in modo sintetico (e mi auguro chiaro) sulla questione della riduzione del numero ma nel contempo dell’aumento del potere di rappresentanza amministrativa dei Comuni metropolitani: le due questioni sono due facce della stessa medaglia.
Per le unioni di comuni finalizzate all’esercizio associato di funzioni o servizi, la legge 56 fissa il limite minimo di 10.000 abitanti ovvero di 3.000 per i comuni di montagna. Mentre il singolo comune non scompare , si istituisce un mini apparato di coordinamento dell’unione (presidente e segretario). All’unione possono essere delegate in forma associata alcuni compiti (anticorruzione, trasparenza, revisione dei conti, valutazione e controllo di gestione). Solo se previsto dallo statuto specifico, il presidente assume le funzioni di sindaco dell’unione. È evidente che questo tipo di unione molto difficilmente potrà risolvere i problemi dei singoli comuni derivanti dalla loro limitata dimensione e precaria autosufficienza.
L’unione dei micro comuni può avere senso e svolgere una funzione positiva di coordinamento e valorizzazione delle risorse nei territori montani dove si rende necessaria l’esistenza delle singole unità amministrative come indispensabili presidi socio-amministrativi per ragioni geofisiche e per le condizioni di isolamento. Nei territori metropolitani di pianura in cui le distanze sono molto ravvicinate si dovrebbe scegliere la strada delle fusioni di più comuni.
Nonostante la farraginosità e l’ambiguità delle norme (commi 116-139), con le fusioni di due o più comuni contigui si abrogano le singole unità amministrative (ciascuna delle quali deve avere meno di 5.000 abitanti) e si istituisce – tramite legge regionale – un nuovo comune di medie dimensioni, il cui statuto dovrà assicurare alle comunità “adeguate forme di partecipazione e di decentramento dei servizi”.
Se si prende in considerazione l’area metropolitana milanese (monca di Monza Brianza) ci si trova di fronte a questi dati (2011): su 3.156.694 di abitanti, 1.324.110 risiedono nel comune di Milano, con un rapporto abitanti / superficie di 7.276 ab. / 1 kmq; 1.832.584 è distribuito – 1.313 ab. / 1 kmq – nei 133 comuni del rimanente territorio ex provinciale. Il disequilibrio demografico e socio-territoriale è evidente. Il gigantismo del comune unico di Milano non può non schiacciare il nanismo delle rimanenti unità amministrative. Per riequilibrare il sistema socio-amministrativo e politico-istituzionale una strada possibile da percorrere è quella di scomporre Milano in 20 comuni (esperienza 1968 / 1998 dei 20 consigli di zona); oppure in 19 comuni corrispondenti ai collegi delle elezioni provinciali, a cui si aggiungono gli altri 26 in cui sono divisi i rimanenti comuni. I collegi aggregano quartieri (di Milano) e comuni (dell’area metropolitana) contigui e limitrofi. 45 comuni, al posto di 134, di circa 70.000 abitanti ciascuno. Non si tratta di calcoli astratti, ma di dati rappresentativi della realtà viva delle comunità e dei centri urbani, di indicazioni per avviare possibili processi di ridisegno geo-istituzionali finalizzati a un’ equa distribuzione delle risorse e al taglio degli sprechi, al decentramento concreto e alla partecipazione democratica più diffusa capillare e coinvolgente.
Stando così le cose, è ancora possibile correggere gli aspetti oligarchici e colmare la distanza tra società civile e casta politica? La risposta diventa positiva solo se si realizzano alcune condizioni preliminari e necessarie: apertura di spazi di partecipazione a gruppi/comitati/associazioni di cittadinanza attiva e ai corpi intermedi disponibili (forze sociali sindacali produttive ecc.), e accoglimento delle proposte coerenti con quelle parti della legge che vanno nella direzione di istituire la Città Metropolitana come organo democratico di governo locale e di un sistema equilibrato di Comuni.
Si tratta di riportare nell’alveo costituzionale la legge n. 56/2014. Ciò è forse possibile se si attuano quelle parti che prevedono: la riorganizzazione dei piccoli e piccolissimi comuni attraverso unioni e fusioni; l’elezione a suffragio universale del sindaco e del consiglio metropolitano, a condizione che si proceda ad “articolare il territorio del comune capoluogo in più comuni”. Superare da una parte la polverizzazione dei municipi e dall’altra il monocentrismo dei Capoluoghi contribuirebbe a far nascere sistemi equilibrati di Comuni delle aree metropolitane ed Enti di governo sovra-comunali (le Città Metropolitane) più vicini ai cittadini comunali e metropolitani e più adatti a rappresentare e amministrare i territori.
Occorre pensare e attuare un progetto strategico di riequilibrio urbano e di valorizzazione storico-ambientale, socio- economica e culturale del territorio dentro un sistema di governo fondato sui comuni e sulla loro collaborazione e solidarietà. Una Città Metropolitana costituita da Comuni autosufficienti, ma in rete con gli altri. Sistema di Comuni che si deve reggere sulle solide basi della partecipazione democratica e sugli spazi aperti alla discussione pubblica e alla consultazione (di natura anche deliberativa) su questioni di interesse generale e strategico: lavoro e diritti, riconversione ecologica dell’economia e riassetto idrogeologico e relativi impianti industriali e infrastrutture, pianificazione urbanistica, mobilità – inteso come diritto della persona – e trasporto pubblico, verde e parchi, rifiuti, energia, immigrazione e multiculturalità, servizi sociali e culturali, ecc.).
Questa prospettiva, davvero riformatrice , che rivitalizzerebbe e rinnoverebbe il tessuto della società e delle sue istituzioni di base – in sintonia perfetta con l’art. 5 della Costituzione (autonomie locali e decentramento) – potrebbe realizzarsi se si hanno la consapevolezza e la volontà politica di perseguire l’obiettivo di battere il disegno autoritario di rafforzare gli apparati centralistici a tutti i livelli e di mettere pesantemente in discussione i diritti sociali civili e politici.
Rinviando ad altro intervento riflessioni e proposte sull’articolazione in più comuni dei Capoluoghi, provo a soffermarmi in modo sintetico (e mi auguro chiaro) sulla questione della riduzione del numero ma nel contempo dell’aumento del potere di rappresentanza amministrativa dei Comuni metropolitani: le due questioni sono due facce della stessa medaglia.
Per le unioni di comuni finalizzate all’esercizio associato di funzioni o servizi, la legge 56 fissa il limite minimo di 10.000 abitanti ovvero di 3.000 per i comuni di montagna. Mentre il singolo comune non scompare , si istituisce un mini apparato di coordinamento dell’unione (presidente e segretario). All’unione possono essere delegate in forma associata alcuni compiti (anticorruzione, trasparenza, revisione dei conti, valutazione e controllo di gestione). Solo se previsto dallo statuto specifico, il presidente assume le funzioni di sindaco dell’unione. È evidente che questo tipo di unione molto difficilmente potrà risolvere i problemi dei singoli comuni derivanti dalla loro limitata dimensione e precaria autosufficienza.
L’unione dei micro comuni può avere senso e svolgere una funzione positiva di coordinamento e valorizzazione delle risorse nei territori montani dove si rende necessaria l’esistenza delle singole unità amministrative come indispensabili presidi socio-amministrativi per ragioni geofisiche e per le condizioni di isolamento. Nei territori metropolitani di pianura in cui le distanze sono molto ravvicinate si dovrebbe scegliere la strada delle fusioni di più comuni.
Nonostante la farraginosità e l’ambiguità delle norme (commi 116-139), con le fusioni di due o più comuni contigui si abrogano le singole unità amministrative (ciascuna delle quali deve avere meno di 5.000 abitanti) e si istituisce – tramite legge regionale – un nuovo comune di medie dimensioni, il cui statuto dovrà assicurare alle comunità “adeguate forme di partecipazione e di decentramento dei servizi”.
Se si prende in considerazione l’area metropolitana milanese (monca di Monza Brianza) ci si trova di fronte a questi dati (2011): su 3.156.694 di abitanti, 1.324.110 risiedono nel comune di Milano, con un rapporto abitanti / superficie di 7.276 ab. / 1 kmq; 1.832.584 è distribuito – 1.313 ab. / 1 kmq – nei 133 comuni del rimanente territorio ex provinciale. Il disequilibrio demografico e socio-territoriale è evidente. Il gigantismo del comune unico di Milano non può non schiacciare il nanismo delle rimanenti unità amministrative. Per riequilibrare il sistema socio-amministrativo e politico-istituzionale una strada possibile da percorrere è quella di scomporre Milano in 20 comuni (esperienza 1968 / 1998 dei 20 consigli di zona); oppure in 19 comuni corrispondenti ai collegi delle elezioni provinciali, a cui si aggiungono gli altri 26 in cui sono divisi i rimanenti comuni. I collegi aggregano quartieri (di Milano) e comuni (dell’area metropolitana) contigui e limitrofi. 45 comuni, al posto di 134, di circa 70.000 abitanti ciascuno. Non si tratta di calcoli astratti, ma di dati rappresentativi della realtà viva delle comunità e dei centri urbani, di indicazioni per avviare possibili processi di ridisegno geo-istituzionali finalizzati a un’ equa distribuzione delle risorse e al taglio degli sprechi, al decentramento concreto e alla partecipazione democratica più diffusa capillare e coinvolgente.
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