a cura di Sonia Zarino (architetto, urbanista)

giovedì 7 febbraio 2013

Le Aree Metropolitane e la loro delimitazione: una questione irrisolta

In Italia il tema della delimitazione degli ambiti metropolitani è stato affrontato in epoche diverse e sotto varie angolature, senza trovare, a tutt’oggi, una definizione conclusiva. Il "governo metropolitano" non è mai stato inserito in un’esplicita politica governativa nazionale, ma è stato trattato come un semplice problema istituzionale.

Il motivo per cui non esiste, a tutt’oggi, un metodo consolidato che ci guidi nella definizione del perimetro entro cui ricomprendere i fenomeni ascrivibili alle aree metropolitane è da ricercarsi, con ogni probabilità, nella grande varietà tipologica della aree stesse, tra loro molto spesso diversissime per demografia, geografia, relazioni interne ed esterne.
Possiamo dire, seguendo la definizione di A. Ardigò (in "La diffusione urbana" 1967) che parlare di “area metropolitana” è ben diverso dal parlare di “metropoli”, perché mentre la seconda è una grande città che conserva la delimitazione amministrativa dei confini “dettata” in qualche modo dalla differenziazione tra città e campagna, l’area metropolitana rappresenta l’estensione territoriale degli insediamenti urbani al di là dei confini fisico-amministrativi della metropoli, uno spazio - tempo dove i rapporti tra la città e il suo territorio (la campagna, ma anche i piccoli centri satellite) si svolgono in un continuum sempre più caratterizzato dal modello urbano.

Le aree metropolitane variano nel tempo con notevole rapidità, anche per questo è difficile definirle e delimitarle sul territorio, anche se la questione si pone se si vuole affrontare il tema della loro gestione.



Alcuni orientamenti negli USA

Uno dei parametri che fin dagli anni ’60 negli USA si decise di utilizzare per caratterizzare le aree metropolitane erano gli spostamenti ricorrenti della popolazione interna alle aree per motivi di lavoro.



L’importanza dato al tema dei flussi crebbe nel tempo al punto da generare definizioni in cui l’area urbana appariva sempre più smaterializzata, trasformandosi gradualmente in “campo urbano” (Friedman e Miller - 1965), ossia una rete di flussi e di localizzazioni costituiti da persone, beni ed informazioni, che si estendono su un’area vasta lontana anche molte miglia dal centro urbano, cui la collegano le infrastrutture viarie.



I flussi furono al centro anche degli studi condotti da Berry, Goheen e Goldstein (1968) che determinavano nuove unità territoriali: il “campo di pendolarità” , il “mercato del lavoro”, l’”area economica funzionale (FEA)” e la “regione urbana consolidata (CUR)”. Berry introdusse nel 1976 anche il concetto di “Sistema urbano giornaliero (DUS)” , sempre basato sull’osservazione dei flussi casa-lavoro.



In questi studi statunitensi il requisito fondamentale per definire aree funzionali aventi il carattere di sistemi urbani era la numerosità delle relazioni interne alle aree stesse.



L’esperienza italiana

In Italia, il primo lavoro che si occupò della delimitazione delle aree metropolitane fu quello di Cafiero e Busca condotto per la Svimez (1970)[1]. L’area metropolitana vi viene rappresentata come un sistema di funzioni interrelate, distribuite anche discontinuamente nello spazio: la soluzione adottata consiste quindi nell’individuare quegli indici a partire dai quali si può ipotizzare una delimitazione spaziale dell’area stessa.



La questione di come scegliere questi indici venne in seguito affrontata a più riprese, e i parametri maggiormente utilizzati furono quelli riguardanti la popolazione (consistenza e dinamiche) e i flussi giornalieri, per lavoro e studio. Successivamente[2] venne evidenziata l’importanza di ulteriori fattori, detti “di centralità” quali i servizi di rango elevato[3] per le famiglie e le funzioni di guida, promozione, ricerca, innovazione che si irraggiano oltre i confini provinciale e/o dell’area metropolitana.



Nonostante questa notevole ricchezza di studi sull’argomento, la risposta che il legislatore ha dato più comunemente a questa esigenza è stata prevalentemente quella di tipo amministrativo/istituzionale a seguito della legge 142/90 che richiedeva alle Regioni di definire le aree metropolitane semplicemente “attribuendo” alla città capoluogo un certo numero di comuni limitrofi, purchè intrattenessero con essa “rapporti di stretta integrazione in ordine alle attività economiche, ai servizi essenziali alla vita sociale, nonché alle relazioni culturali e alle caratteristiche territoriali.”[4]



La Regione Liguria è stata una delle poche a legiferare in tal senso individuando un gruppo di comuni facenti parte dell’area metropolitana genovese.[5]



Tale definizione, che consiste nell’aver aggregato alla città capoluogo un certo numero di comuni limitrofi,  non pare tuttavia il risultato di una analisi che vada oltre la necessità di dare una definizione burocratica-amministrativa della nuova entità, tanto è vero che i risultati in termini di azioni di modifica sul territorio (in termini di organizzazione e coordinamento) sono stati assai deboli per non dire nulli.



Il D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali) riprende con modalità meno rigide tanto il concetto di area che quello di città metropolitana. In particolare, per la città metropolitana si fa riferimento ad un modello che cerca di tenere maggiormente in conto le specificità delle varie aree urbane precedentemente individuate, lasciando ampio spazio alle forme di partecipazione delle comunità locali al processo di formazione e una certa variabilità nello schema gestionale di possibile adozione.



Così come la legge 142/90, anche il Tuel ha avuto scarsa applicazione e, dal luglio 2012, gli artt. 22 e 23 sono stati abrogati dal comma 1 dell’art. 18 del D.Lgs. 95 (sulla spending review).

Tale decreto, abrogando i testi di legge precedenti[6], obbliga a considerare città metropolitana l’insieme del territorio della provincia corrispondente, prescindendo quindi da ogni logica funzionale. Questa scelta si configura come eccessivamente rigida e inadeguata a rispondere alle esigenze di tutte le 10 aree metropolitane individuate.



Per inciso, appare per lo meno poco opportuno e fuorviante aver optato per il termine “città metropolitana” in luogo di “area metropolitana”. Nella legislazione precedente con il termine “area metropolitana” veniva indicato un territorio di dimensione uguale o inferiore, grosso modo, alla provincia, all’interno del quale poteva essere individuata la “città metropolitana”. Nel DL 95/2012, viceversa, con il termine città metropolitana si intende precisamente il territorio corrispondente alla provincia soppressa, compiendo una forzatura per lo meno semantica che contribuisce ad una percezione in negativo da parte dei comuni “minori” che vedono la città metropolitana come un ente “inglobante” che sottrae loro quote di autonomia amministrativa.



Il concetto di “area metropolitana” è invece ben più ricco di significati, ciascuno dei quali serve a meglio rappresentarne la complessa natura[7]. Vi è “l’area politica”, intesa nella sua qualità di ente locale, vi è “l’area fisica”, ossia l’insieme di manufatti edilizi e di aree verdi, vi è poi “l’area funzionale” che è il luogo delle relazioni e dove avvengono scambi  materiali e immateriali, che si ricollega infine all’”area sistema” vista come luogo della produzione e dei flussi di merci.



L’area metropolitana è il luogo dove si verificano problematiche di scala più ampia e aventi una maggiore complessità rispetto a quelle che sono tipiche di una grande città: occorrono quindi strumenti particolari per riuscire a gestire tutti questi fenomeni e mantenerne il controllo strategico al fine di conseguire livelli di qualità della vita sempre migliori e qualificanti, poiché è su di essi che si misura il grado di sviluppo e la competitività territoriale degli insediamenti urbani.



La città metropolitana, lungi dal tradursi in una mera risposta di tipo amministrativo/burocratico, deve mutuare dal modello comunale le caratteristiche tipiche di un ente amministrativo locale (gestione dei servizi, uso del suolo, ecc.) ed in più deve promuovere lo sviluppo socio-economico di una pluralità di enti territoriali, creando sinergie e riequilibrando eventuali situazioni di difficoltà.



Quali criteri per “delimitare” un’area metropolitana?

Sulla scorta di una nota tipologia proposta da Martinotti (1993) possiamo raggruppare tali criteri in tre grandi categorie:



1.      Omogeneità:  aree o comuni con caratteristiche omogenee (dimensione demografica, densità delle attività, caratteristiche economiche, caratteristiche sociali, ecc.);

2.      Interdipendenza: aree o comuni caratterizzati da forti scambi e relazioni (di persone, di merci, di informazioni);

3.      Morfologia: aree o comuni che sono spazialmente contigui o che presentano analogie nella conformazione fisica.



Delimitare un’area metropolitana è un tema che si pone in modo particolarmente stringente nel momento che occorre definirla amministrativamente. Non è un tema di facile risoluzione, e ancora oggi non si è pervenuti  a definizioni soddisfacenti e condivise tanto sul piano amministrativo che su quello politico.



L’elemento dinamico che contraddistingue le aree metropolitane, lo scambio giornaliero di flussi di persone, cose e informazioni, rende difficile stabilire delle delimitazioni territoriali tanto che ad ogni tematica corrisponde un ambito fisico diverso: i flussi dei pendolari, ad esempio, hanno una portata diversa da quelli della distribuzione delle merci o del raggio di influenza dei servizi territoriali quali grandi centri ospedalieri, università, tribunali, ecc.



Posto che un certo grado di arbitrarietà e di approssimazione è inevitabile nella definizione di un perimetro, occorre comunque cercare quegli elementi che, per un dato territorio, permettano di riconoscere gli indicatori dell’area metropolitana. Essi saranno più definiti là dove il carattere dell’area metropolitana è più marcato e più sfumati all’attenuarsi di tale carattere.



Pensando all’area metropolitana di Genova, particolarmente attrattiva rispetto al suo territorio circostante, un punto di vista particolarmente interessante appare quello adottato da Berry (1976) secondo il quale “un’area urbana o metropolitana può essere funzionalmente definita con uno spazio autocontenuto all’interno del quale gli spostamenti giornalieri prevalenti – quelli per lavoro – risultano superiori a quelli diretti verso l’esterno”.



La direzione dei flussi diventa allora l’indicatore per attribuire una porzione territoriale all’uno o all’altro polo urbano.



Altro parametro da prendere in considerazione nella delimitazione dell’area metropolitana è la definizione della cosiddetta “area di influenza” , che comprende la misurazione dei flussi casa – lavoro così come, ad esempio, alcuni indicatori relativi alla struttura demografica ed economica.



Altro parametro da considerare è l’utilizzo “indifferenziato” dello spazio e del tempo, le modalità di divertimento, il consumo culturale e la sempre più ampia richiesta di insediamento abitativo fuori dei confini della città capoluogo e anche dei centri intermedi. Non si è più pendolari solo per lavoro o studio, e si comincia a vivere i vari centri attrattivi a tutte le ore del giorno, anche per fare compere o per fruire dell’offerta culturale.



Quali gli obiettivi della città metropolitana di Genova

La complessità dei temi che il nuovo ente si troverà ad affrontare impone che siano definite efficaci politiche di intervento per quanto concerne i servizi sovra comunali (trasporti, smaltimento rifiuti, energia, acqua, offerta turistico-culturale, ecc.) per migliorarli ed integrarli ottimizzando nel contempo il rapporto costi-benefici.



Altri settori di intervento di rilevante interesse sono la programmazione economica e la pianificazione territoriale sovra comunale che tenga conto delle possibili integrazioni con le scelte ai vari livelli superiori (regionale, nazionale, sovra nazionale), senza dimenticare che l’area di Genova è collocata al centro di un assetto policentrico caratterizzato da una gerarchia degli insediamenti.



Vi è infatti l’esigenza di considerare da un lato l’autonomia storico-economica delle città minori e dall’altro l’esistenza di una forte interazione tra i sistemi urbani dell’area da un punto di vista urbanistico ed economico, ultimamente rafforzata  anche amministrativamente con l’introduzione degli ATO Acqua e Rifiuti.



Un altro importante obiettivo della città metropolitana è il raggiungimento di un riequilibrio nelle sue funzioni caratterizzanti attraverso il decentramento tra i vari ambiti territoriali (gli agglomerati urbani, le zone costiere, l’entroterra) rafforzando il policentrismo anche attraverso una rete di infrastrutture di mobilità pubblica, integrate tra di loro, e di servizi sociali, culturali, economici.



Si tratta, in definitiva, di dare vita ad una rete territoriale fortemente connessa potenziando il ruolo assunto dal sistema metropolitano di Genova in rapporto con le direttrici di scambio regionali, nazionali e internazionali, sviluppando il territorio come sistema socio-economico omogeneo, caratterizzato da un elevato grado di interconnessione interna e di integrazione a livello produttivo, sociale e amministrativo supportato anche da una elevata infrastrutturazione tecnologica. Questo significa ad esempio migliorare la mobilità dei cittadini e delle merci all’interno dell’area, aumentare il livello di identità culturale dell’area nel suo complesso, sostenere lo sviluppo dei settori produttivi rilevanti dell’area, incrementare l’efficacia delle politiche locali del lavoro, potenziare la governance integrata del territorio, rilanciare le politiche di marketing territoriale estese all’area per fare sistema ed evitare conflitti localistici.



Possiamo concludere dicendo quindi che la delimitazione della città metropolitana va intesa non come irrigidimento dei perimetri amministrativi, ma come opportunità per rendere più organiche le relazioni interne ed esterne ai perimetri stessi, tenuto conto che i confini delle aree metropolitane sono in continuo divenire in ragione delle attività umane e della mutevolezza delle funzioni e dei reciproci rapporti tra aree diverse.




[1] cfr. S. Cafiero, A. Busca, Lo sviluppo metropolitano in Italia, SVIMEZ, Milano, Giuffré, 1970

[2] cfr. U. Marchese (a cura di), Aree metropolitane in Italia. Anni '80. Economia e fattori di centralità. Trasporti e movimenti pendolari, Padova, Cedam, 1989

[3] cfr. Università, Tribunali, Corti d’Appello, Borse valori, aeroporti, stazioni ferroviarie principali, ecc.

[4] Cfr. L.142/1990, art. 17 c.1.

[5] Con la legge regionale n. 12/1991, integrata dalla legge regionale n. 7/1997, la Regione Liguria provvide a delimitare l’area metropolitana genovese. Ne facevano parte i seguenti Comuni appartenenti alla Provincia di Genova: Genova, Arenzano, Avegno, Bargagli, Bogliasco, Busalla, Camogli, Campoligure, Campomorone, Casella, Ceranesi, Cogoleto, Davagna, Isola del Cantone, Masone, Mele, Mignanego, Pieve Ligure, Recco, Ronco Scrivia, Rossiglione, Sant’Olcese, Savignone, Serra, Riccò, Sori, Tiglieto, Uscio, Crocefieschi, Montoggio, Torriglia, Fascia, Fontanigorda, Gorreto, Montebruno, Propata, Rondanina, Rovegno, Valbrevenna, Vobbia, Lumarzo. Per la restante parte dei comuni, non rientranti nell’area metropolitana, era prevista l’istituzione di una nuova provincia.

[6] Artt. 22 e 23 del TUEL D. Lgs. 267/2000 e artt. 24 e 24, commi 9 e 10 della L 42/2009 sul federalismo fiscale.


[7] Cfr. C. Beguinot, Le istituzioni, la conoscenza, i casi. In Martinotti (1993).

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