In
Italia il tema della delimitazione degli ambiti metropolitani è stato
affrontato in epoche diverse e sotto varie angolature, senza trovare, a
tutt’oggi, una definizione conclusiva. Il "governo metropolitano" non
è mai stato inserito in un’esplicita politica governativa nazionale, ma è stato
trattato come un semplice problema istituzionale.
Il
motivo per cui non esiste, a tutt’oggi, un metodo consolidato che ci guidi
nella definizione del perimetro entro cui ricomprendere i fenomeni ascrivibili
alle aree metropolitane è da ricercarsi, con ogni probabilità, nella grande
varietà tipologica della aree stesse, tra loro molto spesso diversissime per
demografia, geografia, relazioni interne ed esterne.
Possiamo
dire, seguendo la definizione di A. Ardigò (in "La diffusione urbana"
1967) che parlare di “area metropolitana” è ben diverso dal parlare di
“metropoli”, perché mentre la seconda è una grande città che conserva la
delimitazione amministrativa dei confini “dettata” in qualche modo dalla
differenziazione tra città e campagna, l’area metropolitana rappresenta
l’estensione territoriale degli insediamenti urbani al di là dei confini
fisico-amministrativi della metropoli, uno spazio - tempo dove i rapporti tra la
città e il suo territorio (la campagna, ma anche i piccoli centri satellite) si
svolgono in un continuum sempre più caratterizzato dal modello urbano.
Le
aree metropolitane variano nel tempo con notevole rapidità, anche per questo è
difficile definirle e delimitarle sul territorio, anche se la questione si pone
se si vuole affrontare il tema della loro gestione.
Alcuni orientamenti negli USA
Uno
dei parametri che fin dagli anni ’60 negli USA si decise di utilizzare per
caratterizzare le aree metropolitane erano gli spostamenti ricorrenti della
popolazione interna alle aree per motivi di lavoro.
L’importanza
dato al tema dei flussi crebbe nel tempo al punto da generare definizioni in
cui l’area urbana appariva sempre più smaterializzata, trasformandosi
gradualmente in “campo urbano” (Friedman e Miller - 1965), ossia una rete di
flussi e di localizzazioni costituiti da persone, beni ed informazioni, che si
estendono su un’area vasta lontana anche molte miglia dal centro urbano, cui la
collegano le infrastrutture viarie.
I
flussi furono al centro anche degli studi condotti da Berry, Goheen e Goldstein
(1968) che determinavano nuove unità territoriali: il “campo di pendolarità” ,
il “mercato del lavoro”, l’”area economica funzionale (FEA)” e la “regione
urbana consolidata (CUR)”. Berry introdusse nel 1976 anche il concetto di
“Sistema urbano giornaliero (DUS)” , sempre basato sull’osservazione dei flussi
casa-lavoro.
In
questi studi statunitensi il requisito fondamentale per definire aree
funzionali aventi il carattere di sistemi urbani era la numerosità delle
relazioni interne alle aree stesse.
L’esperienza italiana
In
Italia, il primo lavoro che si occupò della delimitazione delle aree
metropolitane fu quello di Cafiero e Busca condotto per la Svimez (1970)[1].
L’area metropolitana vi viene rappresentata come un sistema di funzioni
interrelate, distribuite anche discontinuamente nello spazio: la soluzione
adottata consiste quindi nell’individuare quegli indici a partire dai quali si
può ipotizzare una delimitazione spaziale dell’area stessa.
La
questione di come scegliere questi indici venne in seguito affrontata a più
riprese, e i parametri maggiormente utilizzati furono quelli riguardanti la
popolazione (consistenza e dinamiche) e i flussi giornalieri, per lavoro e
studio. Successivamente[2] venne
evidenziata l’importanza di ulteriori fattori, detti “di centralità” quali i
servizi di rango elevato[3] per
le famiglie e le funzioni di guida, promozione, ricerca, innovazione che si
irraggiano oltre i confini provinciale e/o dell’area metropolitana.
Nonostante
questa notevole ricchezza di studi sull’argomento, la risposta che il
legislatore ha dato più comunemente a questa esigenza è stata prevalentemente quella
di tipo amministrativo/istituzionale a seguito della legge 142/90 che
richiedeva alle Regioni di definire le aree metropolitane semplicemente
“attribuendo” alla città capoluogo un certo numero di comuni limitrofi, purchè
intrattenessero con essa “rapporti di stretta integrazione in ordine alle
attività economiche, ai servizi essenziali alla vita sociale, nonché alle
relazioni culturali e alle caratteristiche territoriali.”[4]
La Regione Liguria è stata una delle poche a
legiferare in tal senso individuando un gruppo di comuni facenti parte
dell’area metropolitana genovese.[5]
Tale
definizione, che consiste nell’aver aggregato alla città capoluogo un certo
numero di comuni limitrofi, non pare
tuttavia il risultato di una analisi che vada oltre la necessità di dare una
definizione burocratica-amministrativa della nuova entità, tanto è vero che i
risultati in termini di azioni di modifica sul territorio (in termini di
organizzazione e coordinamento) sono stati assai deboli per non dire nulli.
Il
D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli
enti locali) riprende con modalità
meno rigide tanto il concetto di area che quello di città metropolitana. In
particolare, per la città metropolitana si fa riferimento ad un modello che
cerca di tenere maggiormente in conto le specificità delle varie aree urbane
precedentemente individuate, lasciando ampio spazio alle forme di
partecipazione delle comunità locali al processo di formazione e una certa
variabilità nello schema gestionale di possibile adozione.
Così
come la legge 142/90, anche il Tuel ha avuto scarsa applicazione e, dal luglio
2012, gli artt. 22 e 23 sono stati abrogati dal comma 1 dell’art. 18 del D.Lgs.
95 (sulla spending review).
Tale
decreto, abrogando i testi di legge precedenti[6],
obbliga a considerare città metropolitana l’insieme del territorio della provincia
corrispondente, prescindendo quindi da ogni logica funzionale. Questa scelta si
configura come eccessivamente rigida e inadeguata a rispondere alle esigenze di
tutte le 10 aree metropolitane individuate.
Per
inciso, appare per lo meno poco opportuno e fuorviante aver optato per il
termine “città metropolitana” in luogo di “area metropolitana”. Nella
legislazione precedente con il termine “area metropolitana” veniva indicato un
territorio di dimensione uguale o inferiore, grosso modo, alla provincia,
all’interno del quale poteva essere individuata la “città metropolitana”. Nel
DL 95/2012, viceversa, con il termine città metropolitana si intende
precisamente il territorio corrispondente alla provincia soppressa, compiendo
una forzatura per lo meno semantica che contribuisce ad una percezione in
negativo da parte dei comuni “minori” che vedono la città metropolitana come un
ente “inglobante” che sottrae loro quote di autonomia amministrativa.
Il
concetto di “area metropolitana” è invece ben più ricco di significati,
ciascuno dei quali serve a meglio rappresentarne la complessa natura[7].
Vi è “l’area politica”, intesa nella sua qualità di ente locale, vi è “l’area
fisica”, ossia l’insieme di manufatti edilizi e di aree verdi, vi è poi “l’area
funzionale” che è il luogo delle relazioni e dove avvengono scambi materiali e immateriali, che si ricollega
infine all’”area sistema” vista come luogo della produzione e dei flussi di
merci.
L’area
metropolitana è il luogo dove si verificano problematiche di scala più ampia e
aventi una maggiore complessità rispetto a quelle che sono tipiche di una
grande città: occorrono quindi strumenti particolari per riuscire a gestire
tutti questi fenomeni e mantenerne il controllo strategico al fine di
conseguire livelli di qualità della vita sempre migliori e qualificanti, poiché
è su di essi che si misura il grado di sviluppo e la competitività territoriale
degli insediamenti urbani.
La
città metropolitana, lungi dal tradursi in una mera risposta di tipo
amministrativo/burocratico, deve mutuare dal modello comunale le
caratteristiche tipiche di un ente amministrativo locale (gestione dei servizi,
uso del suolo, ecc.) ed in più deve promuovere lo sviluppo socio-economico di
una pluralità di enti territoriali, creando sinergie e riequilibrando eventuali
situazioni di difficoltà.
Quali criteri per “delimitare” un’area
metropolitana?
Sulla scorta di una nota
tipologia proposta da Martinotti (1993) possiamo raggruppare tali criteri in
tre grandi categorie:
1.
Omogeneità:
aree o comuni con caratteristiche
omogenee (dimensione demografica, densità delle attività, caratteristiche
economiche, caratteristiche sociali, ecc.);
2.
Interdipendenza:
aree o comuni caratterizzati da forti scambi e relazioni (di persone, di
merci, di informazioni);
3.
Morfologia:
aree o comuni che sono spazialmente contigui o che presentano analogie
nella conformazione fisica.
Delimitare
un’area metropolitana è un tema che si pone in modo particolarmente stringente nel
momento che occorre definirla amministrativamente. Non è un tema di facile risoluzione,
e ancora oggi non si è pervenuti a
definizioni soddisfacenti e condivise tanto sul piano amministrativo che su
quello politico.
L’elemento
dinamico che contraddistingue le aree metropolitane, lo scambio giornaliero di
flussi di persone, cose e informazioni, rende difficile stabilire delle
delimitazioni territoriali tanto che ad ogni tematica corrisponde un ambito
fisico diverso: i flussi dei pendolari, ad esempio, hanno una portata diversa
da quelli della distribuzione delle merci o del raggio di influenza dei servizi
territoriali quali grandi centri ospedalieri, università, tribunali, ecc.
Posto
che un certo grado di arbitrarietà e di approssimazione è inevitabile nella
definizione di un perimetro, occorre comunque cercare quegli elementi che, per
un dato territorio, permettano di riconoscere gli indicatori dell’area
metropolitana. Essi saranno più definiti là dove il carattere dell’area
metropolitana è più marcato e più sfumati all’attenuarsi di tale carattere.
Pensando
all’area metropolitana di Genova, particolarmente attrattiva rispetto al suo
territorio circostante, un punto di vista particolarmente interessante appare
quello adottato da Berry (1976) secondo il quale “un’area urbana o
metropolitana può essere funzionalmente definita con uno spazio autocontenuto
all’interno del quale gli spostamenti giornalieri prevalenti – quelli
per lavoro – risultano superiori a quelli diretti verso l’esterno”.
La
direzione dei flussi diventa allora l’indicatore per attribuire una porzione
territoriale all’uno o all’altro polo urbano.
Altro
parametro da prendere in considerazione nella delimitazione dell’area
metropolitana è la definizione della cosiddetta “area di influenza” , che
comprende la misurazione dei flussi casa – lavoro così come, ad esempio, alcuni
indicatori relativi alla struttura demografica ed economica.
Altro
parametro da considerare è l’utilizzo “indifferenziato” dello spazio e del
tempo, le modalità di divertimento, il consumo culturale e la sempre più ampia
richiesta di insediamento abitativo fuori dei confini della città capoluogo e
anche dei centri intermedi. Non si è più pendolari solo per lavoro o studio, e
si comincia a vivere i vari centri attrattivi a tutte le ore del giorno, anche
per fare compere o per fruire dell’offerta culturale.
Quali gli obiettivi della città
metropolitana di Genova
La
complessità dei temi che il nuovo ente si troverà ad affrontare impone che
siano definite efficaci politiche di intervento per quanto concerne i servizi
sovra comunali (trasporti, smaltimento rifiuti, energia, acqua, offerta
turistico-culturale, ecc.) per migliorarli ed integrarli ottimizzando nel
contempo il rapporto costi-benefici.
Altri
settori di intervento di rilevante interesse sono la programmazione economica e
la pianificazione territoriale sovra comunale che tenga conto delle possibili
integrazioni con le scelte ai vari livelli superiori (regionale, nazionale,
sovra nazionale), senza dimenticare che l’area di Genova è collocata al centro
di un assetto policentrico caratterizzato da una gerarchia degli insediamenti.
Vi è
infatti l’esigenza di considerare da un lato l’autonomia storico-economica
delle città minori e dall’altro l’esistenza di una forte interazione tra i
sistemi urbani dell’area da un punto di vista urbanistico ed economico,
ultimamente rafforzata anche
amministrativamente con l’introduzione degli ATO Acqua e Rifiuti.
Un
altro importante obiettivo della città metropolitana è il raggiungimento di un
riequilibrio nelle sue funzioni caratterizzanti attraverso il decentramento tra
i vari ambiti territoriali (gli agglomerati urbani, le zone costiere,
l’entroterra) rafforzando il policentrismo anche attraverso una rete di
infrastrutture di mobilità pubblica, integrate tra di loro, e di servizi
sociali, culturali, economici.
Si
tratta, in definitiva, di dare vita ad una rete territoriale fortemente
connessa potenziando il ruolo assunto dal sistema metropolitano di Genova in
rapporto con le direttrici di scambio regionali, nazionali e internazionali,
sviluppando il territorio come sistema socio-economico omogeneo, caratterizzato
da un elevato grado di interconnessione interna e di integrazione a livello
produttivo, sociale e amministrativo supportato anche da una elevata
infrastrutturazione tecnologica. Questo significa ad esempio migliorare la
mobilità dei cittadini e delle merci all’interno dell’area, aumentare il
livello di identità culturale dell’area nel suo complesso, sostenere lo
sviluppo dei settori produttivi rilevanti dell’area, incrementare l’efficacia
delle politiche locali del lavoro, potenziare la governance integrata del
territorio, rilanciare le politiche di marketing territoriale estese all’area
per fare sistema ed evitare conflitti localistici.
Possiamo
concludere dicendo quindi che la delimitazione della città metropolitana va
intesa non come irrigidimento dei perimetri amministrativi, ma come opportunità
per rendere più organiche le relazioni interne ed esterne ai perimetri stessi,
tenuto conto che i confini delle aree metropolitane sono in continuo divenire
in ragione delle attività umane e della mutevolezza delle funzioni e dei
reciproci rapporti tra aree diverse.
[1]
cfr. S. Cafiero, A. Busca, Lo sviluppo metropolitano in
Italia, SVIMEZ, Milano, Giuffré,
1970
[2] cfr.
U. Marchese (a cura di), Aree metropolitane in Italia. Anni '80. Economia e
fattori di centralità. Trasporti e movimenti pendolari, Padova, Cedam, 1989
[3]
cfr. Università, Tribunali, Corti d’Appello, Borse valori, aeroporti, stazioni
ferroviarie principali, ecc.
[4]
Cfr. L.142/1990, art. 17 c.1.
[5]
Con la legge regionale n. 12/1991, integrata dalla legge regionale n. 7/1997,
la Regione Liguria provvide a delimitare l’area metropolitana genovese. Ne facevano
parte i seguenti Comuni appartenenti alla Provincia di Genova: Genova,
Arenzano, Avegno, Bargagli, Bogliasco, Busalla, Camogli, Campoligure,
Campomorone, Casella, Ceranesi, Cogoleto, Davagna, Isola del Cantone, Masone,
Mele, Mignanego, Pieve Ligure, Recco, Ronco Scrivia, Rossiglione, Sant’Olcese,
Savignone, Serra, Riccò, Sori, Tiglieto, Uscio, Crocefieschi, Montoggio,
Torriglia, Fascia, Fontanigorda, Gorreto, Montebruno, Propata, Rondanina,
Rovegno, Valbrevenna, Vobbia, Lumarzo. Per la restante parte dei comuni, non
rientranti nell’area metropolitana, era prevista l’istituzione di una nuova
provincia.
[6]
Artt. 22 e 23 del TUEL D. Lgs. 267/2000 e artt. 24 e 24, commi 9 e 10 della L
42/2009 sul federalismo fiscale.
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