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La soluzione adottata dal Governo in
via d’urgenza con la spending review sembra troppo affrettata e si presta a
diverse critiche
di Luigi
Oliveri e Giuseppe Panassidi
1. Premessa
Il progetto
di istituzione delle dieci Città metropolitane dell’art. 18 del decreto legge
n. 95 del 2012, sulla spending review, ha il merito di avere rilanciato il
difficile tema del governo delle aree metropolitane, di cui si discute da tanto
tempo senza riuscire ad individuare un modello condiviso dai diversi soggetti
istituzionali e dalle forze politiche.
La soluzione
adottata in via d’urgenza nel provvedimento di revisione della spesa pubblica
del 6 luglio scorso, però, sembra troppo affrettata e si presta a diverse
critiche per i tanti punti di debolezza e di ambiguità presenti nella nuova
disciplina.
1.1. Prima
di affrontare il contenuto della nuova disciplina ed esaminarne gli aspetti più
critici, è opportuno ricordare che è da tempo sentita l’esigenza di creare un
distinto modello di governo per le grandi aree urbane. Ovvero, per quelle aree,
non necessariamente molto estese, ad alta ma anche a bassa densità, costituite,
di regola, dal Comune capoluogo e da altri comuni in contiguità territoriale,
da centri e periferie, da aree forti per economia e servizi e da aree deboli,
dove risaltano relazioni economiche e culturali fortemente integrate e
interessi complessi che superano i singoli confini comunali. Queste aree, dove
è presente anche una forte esigenza di fruizione comune di servizi generali
essenziali per la vita sociale, si configurano spesso come un unico complesso,
strettamente integrato o organizzato gerarchicamente.
Il fenomeno,
presente in tutte le grandi città del continente europeo e non solo, creato
all’origine dall’avvento della società industriale, con il passare del tempo si
è aggravato per gli effetti della globalizzazione e la presenza in questi
territori di un numero sempre più crescente di non residenti “fruitori”
giornalieri o per periodi limitati nell’anno dei servizi urbani (turisti,
uomini d’affari, studenti, ecc). Sono aumentate, con il passare degli anni, le
grandi concentrazioni urbane, e, più in generale, le cosiddette “città diffuse
o esplose” , quelle che si estendono nel territorio contiguo ai propri confini
convenzionali e diventano luogo di intersezione, e, nello stesso tempo, di
frammentazione, di diverse relazioni economiche, sociali e culturali.
Giova
ricordare anche che è patrimonio comune l’idea secondo cui questo fenomeno, non
sia gestibile, con efficienza ed efficacia, con le strutture amministrative
locali tradizionali (comuni e province) per la complessità e varietà delle
problematiche sottese, e che debba essere affrontato con altri modelli di
governo. Questo anche perché i comuni capoluogo di queste realtà urbane si
trovano sempre più in affanno nel governare i grandi fenomeni dell’area, che
oltrepassano i loro confini municipali, quali i trasporti, la qualità dell’ambiente,
l’organizzazione e gestione dei rifiuti, la viabilità, ecc.
E’ opinione
diffusa, in particolare, che in queste realtà urbane, le complesse
problematiche si possono affrontare e risolvere, in modo più efficiente ed
efficace, con la creazione di un unico e specifico centro decisionale
amministrativo, dedicato proprio alla composizione e cura degli interessi,
comuni a tutta l’area e non frazionabili, e all’organizzazione e gestione dei
servizi pubblici di interesse generale non programmabili e non governabili, in
modo ottimale, dalle singole realtà municipali.
I diversi
modelli di governo metropolitano -Diversi sono
i modelli di governo di queste aree utilizzati. Il governo metropolitano, in
particolare, è organizzato, a volte, come associazione volontaria di comuni con
poteri delegati dagli associati, come New York, Los Angeles, San Francisco; in
altri casi, come agenzia funzionale per specifiche politiche, sull’esempio dei
special districts degli Stati Uniti o dei joint committees di Londra fino al 2000,
o di Barcellona dopo la soppressione dell’autorità metropolitana nel 1987.
Altre volte, il governo metropolitano è stato identificato come “città – stato”
o “città – regione” con tutti i poteri di questo livello di governo, alla
maniera di Berlino, Amburgo, Vienna, Bruxelles, o ha assunto la forma di ente
sovracomunale, e, in questo caso, a elezione diretta, sul modello di Londra dal
1965 al 2000, o espressione dei comuni del territorio metropolitano, ad
elezione diretta o meno, con poteri legali e una fiscalità, a volte, autonoma,
come Lione, Bordeaux, Lisbona, Porto (Luigi Bobbio, I governi locali nelle
democrazie contemporanee, Bari, 2002).
1.2. In
Italia, com’è noto, i progetti di istituzione delle città metropolitane sono
rimasti sulla carta: dal primo più datato della legge n. 142 del 1990 (artt.17-
21), all’altro del testo unico degli enti locali n. 267 del 2000 (artt. 22 –
27), fino a quello più recente della legge sul federalismo fiscale n. 42 del
2009 (art. 23).
Così come
non sono riusciti – è bene ricordarlo – neppure i più modesti e limitati
progetti dei piani urbanistici intercomunali, dei comprensori promossi dalle
regioni e dei consorzi funzionali fra comuni e fra questi e la provincia.
La questione
è rimasta irrisolta per diversi fattori: per un verso, la difficoltà di
applicare il modello di governo unico e non differenziato della
sovracomunalità, individuato dalla norma, in tutte le nove concentrazioni
urbane qualificate come aree metropolitane, molto disomogenee fra di loro per
dimensioni e caratteristiche e di coordinarlo con gli altri livelli di governo
locale tradizionali (regione, provincia, comuni); e, per l’altro, l’esistenza
di forti veti istituzionali incrociati, che hanno paralizzato l’azione delle
regioni e delle autonomie locali
In
definitiva, le nove, e, dal 2009, le dieci città metropolitane non sono mai
state istituite, anche se l’ente “città metropolitana” ha ottenuto, con
la riforma del 2001 del Titolo V della Costituzione, il pieno riconoscimento
costituzionale (artt. 114, 117,118 e 119 Cost.).
La
disciplina delle città metropolitane, dopo diverse e disorganiche modifiche, ha
trovato, quindi, il suo rilancio in un provvedimento di decretazione d’urgenza,
estraneo alla materia del riordino istituzionale e dedicato alla revisione
della spesa pubblica per centrare gli obiettivi di finanza pubblica imposti
dagli obblighi europei. Mentre sarebbe stato auspicabile che la
regolamentazione definitiva di questo nuovo ente fosse contenuta nella nuova
Carta delle Autonomie, giacente da tempo in Parlamento (ddl S. n. 2259), ossia
in un progetto organico di ridefinizione del sistema delle autonomie locali.
2.
L’evoluzione del quadro normativo
Prima di
descrivere il nuovo progetto di città metropolitana disegnato dal decreto legge
95 del 2012, è opportuna una breve sintesi dell’evoluzione del quadro normativo
in questa materia, anche per comprendere il percorso effettuato fino al 6
luglio 2012, e le difficoltà attuative causa dell’insuccesso.
2.1.
La legge n. 142 del 1990
Come
anticipato in premessa, le Città metropolitane sono state previste, per la
prima volta, dallalegge di riforma organica dell’ordinamento dei comuni e delle
province 8 giugno 1990, n. 142.
La suddetta
legge n. 142 del 1990 (artt. 17 – 21) individuava direttamente le nove realtà
in cui avrebbero dovuto essere costitute le Città metropolitane e definiva per
queste concentrazioni urbane un modello indifferenziato di governo da
realizzare o in un’ “area ristretta” comprendente il comune capoluogo e i
centri urbani collegati, o in un’ “area vasta” comprensiva anche delle altre
realtà unite al centro urbano da rapporti di stretta integrazione.
L’art. 17
della legge 142 considerava, in particolare, aree metropolitane le zone
comprendenti i comuni di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze,
Roma, Bari, Napoli e gli altri comuni i cui insediamenti avessero con essi
rapporti di stretta integrazione in ordine alle attività economiche, ai servizi
essenziali alla vita sociale, nonché alle relazioni culturali e alle caratteristiche
territoriali.
Prevedeva,
inoltre, che la regione potesse procedere alla delimitazione territoriale di
ciascuna area metropolitana, sentiti i comuni e le province interessate, entro
un anno dalla data di entrata in vigore della stessa legge (13 giugno 1991),
con eventuale riordino della circoscrizione provinciale se l’area metropolitana
non fosse coincisa con il territorio di una provincia.
Stabiliva,
ancora, che nell’area metropolitana, l’amministrazione locale si dovesse
articolare in due livelli, città metropolitana e comuni, e individuava nel
sindaco, giunta e consiglio gli organi elettivi della nuova istituzione.
Affidava
alla regione il compito di coordinare il riparto delle funzioni amministrative,
con rilevanza sovra comunale, fra comuni e città metropolitana, nel campo della
pianificazione, della viabilità, della mobilità, della tutela e valorizzazione
dei beni culturali e dell’ambiente, della difesa del suolo, della tutela
idrogeologica, della tutela e valorizzazione delle risorse idriche, dello
smaltimento dei rifiuti, della raccolta e distribuzione delle acque e delle
fonti energetiche, dei servizi per lo sviluppo economico e della grande
distribuzione commerciale, e dei servizi di area vasta nei settori della
sanità, della scuola e della formazione professionale e degli altri servizi
urbani di livello metropolitano (art. 19).
La legge 142
assegnava, inoltre, alla regione il compito del riordino, sentiti i comuni
interessati, delle circoscrizioni territoriali dei comuni dell’area
metropolitana, con possibilità di istituzione di nuovi comuni per scorporo da
aree di intensa urbanizzazione o per fusione di comuni contigui, che avrebbero
aggiunto all’originaria denominazione quella più caratteristica dei quartieri o
delle circoscrizioni che li componevano (art. 20).
2.2.
Il Tuel del 2000
Come
sappiamo, il modello della legge n. 142 del 1990, di costruzione centralista,
non è stato mai realizzato per i problemi e i veti incrociati di cui s’è fato
cenno in premessa. Occorre riconoscere che la causa principale
dell’insuccesso della legge n. 142/1990è da addebitare, però, alla difficoltà
oggettiva di applicare il modello unico di città metropolitana,
istituzionalizzato e strutturato in modo uniforme, in realtà urbane molto
disomogenee fra di loro, dalla città globale di Milano all’ “isola” di Venezia.
Tralasciando
di richiamare la successiva e caotica evoluzione legislativa della fine degli
anni novanta, è sufficiente ricordare che, a distanza di nove anni, il progetto
della città metropolitana è stato ripreso dalla legge 3 agosto 1999, n. 265
(cosidetta Napolitano – Vigneri), con variazioni finalizzate a valorizzare
l’iniziativa dei comuni e a ricercare soluzioni differenziate per i diversi e
disomogenei territori metropolitani. Quest’ultima disciplina è stata poi
trasfusa nel Testo unico degli enti localiapprovato con decreto legislativo 18
agosto 2000, n. 267 (in prosieguo Tuel).
Il Tuel
prevede un modello di Città metropolitana meno rigido e maggiormente
diversificato in relazione alle specificità locali rispetto a quello della
legge n. 142 del 1990.
Nella
costruzione del Tuel del 2000, infatti, la Città metropolitana è configurata
come ente locale eventuale e, soprattutto, ad ordinamento
differenziato (artt. 22 – 26).
La Regione,
infatti, secondo il Tuel, avrebbe potuto scegliere fra tre opzioni:
a) procedere
alla delimitazione della città metropolitana, senza creare altre strutture
(art. 22);
b) definire
per determinate materie, ambiti sovra comunali, associativi o di cooperazione,
per l’esercizio coordinato delle funzioni degli enti locali (art. 24);
c) istituire
la Città metropolitana fra il comune capoluogo e gli altri comuni ad esso uniti
da contiguità, con rinvio per la definizione degli elementi fondamentali
(territorio, organizzazione, articolazione interna e funzioni) al statuto della
stessa città metropolitana (art. 23).
IL Tuel, in
sostanza, valorizzava i requisiti caratterizzanti la città metropolitana di
“area ristretta”, prevedendo un ente amministrativo costituito da una grande
città (il Comune capoluogo) e i comuni in contiguità territoriale, ad essa
strettamente legati per questioni economiche, sociali e di servizio, nonché
culturali e territoriali (cosiddetta “conurbazione”), senza escludere, però, la
possibilità di una organizzazione territoriale per “area vasta”.
E,
soprattutto, lasciava alla competenza delle autonomie locali la decisione sul
futuro dei loro territori, coinvolgendo nella scelta anche le popolazioni
interessate attraverso lo strumento del referendum. Introduceva, infatti,
l’obbligo della consultazione elettorale sulla proposta di istituzione della
città metropolitana, da svolgersi obbligatoriamente a cura di ciascun comune
partecipante.
Prevedeva,
inoltre, la possibilità di optare per un modello meno strutturato e più funzionale,
attraverso forme associative e di cooperazione collaborativa per l’esercizio
coordinato delle funzioni degli enti locali in ambiti sovra comunali
(sull’esempio delle agenzie funzionali specializzate per determinati temi).
Il TUEL, in
particolare, confermava le stesse aree metropolitane già individuate dalla
legge n. 142 del 1990, e cioè le zone comprendenti i comuni di Torino, Milano,
Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli e gli altri comuni con
insediamenti in rapporti di stretta integrazione territoriale in ordine alle
attività` economiche, ai servizi essenziali alla vita sociale, alle relazioni
culturali e alle caratteristiche territoriali (art. 22).
Prevedeva,
inoltre, che, su conforme proposta degli enti locali interessati, la regione,
e, in caso di inadempimento il Governo, dovesse procedere alla delimitazione
territoriale dell’area metropolitana.
Stabiliva
che nelle aree metropolitane il comune capoluogo e gli altri comuni ad esso
uniti da contiguità territoriale e da rapporti di stretta integrazione potevano
costituirsi in città metropolitane ad ordinamento differenziato.
A tale fine,
su iniziativa degli enti locali interessati, il sindaco del comune capoluogo e
il presidente della provincia avevano il compito di convocare l`assemblea dei
rappresentanti degli enti locali interessati. L’assemblea, su conforme
deliberazione dei consigli comunali, adottava una proposta di statuto della
città metropolitana, con la definizione del territorio, dell`organizzazione,
dell`articolazione interna e delle funzioni.
La proposta
di istituzione della città metropolitana doveva essere sottoposta a referendum
a cura di ciascun comune partecipante. E solo nel caso di esito favorevole del
referendum, la proposta poteva essere presentata dalla regione ad una delle due
Camere per l’approvazione con legge, con la conseguenza di avere tante leggi
quante regioni proponenti.
La città
metropolitana avrebbe acquisito le funzioni della provincia; attuato il
decentramento previsto dallo statuto, salvaguardando l’identità delle
originarie collettività locali.
In caso di
non coincidenza della città metropolitana con il territorio di una provincia,
si sarebbe dovuto procede alla nuova delimitazione delle circoscrizioni
provinciali o all’istituzione di nuove province, considerando l`area della
città come territorio di una nuova provincia.
Istituita la
città metropolitana, la regione, previa intesa con gli enti locali interessati,
avrebbe potuto procedere alla revisione delle circoscrizioni territoriali dei
comuni compresi nell`area metropolitana
Anche il
Tuel, come è noto, non ha avuto attuazione e, dal 7 luglio 2012, gli articoli
22 e 23 sono stati abrogati dal comma 1, ultimo periodo, dell’art. 18 del
decreto legge n. 95 sulla spending review.
2.3.
Riforma costituzionale del 2001
Con la
riforma del 2011 del titolo V della Costituzione, la città metropolitana ha
ottenuto il riconoscimento costituzionale come componente essenziale della
Repubblica, unitamente a Regioni, Province, Comuni e Stato.
La
Costituzione, in estrema sintesi:
a) equipara
la città metropolitana agli altri enti territoriali, ma non ne da una
definizione né li localizza;
b) non dice
nulla circa il procedimento per la loro istituzione, lasciando il dubbio
sull’applicabilità o meno a questa fattispecie dell’art. 133 della
Costituzione, richiesta nei casi di modifica della circoscrizione provinciale;
c)
attribuisce alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la materia della
“legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni,
Province e Città metropolitane” (v. l’art. 117, comma 2, lett. p). Cost.).
Per la
Costituzione riformata dalla legge costituzionale n. 3 del 2011, le città
metropolitane, al pari di comuni, province e regioni, sono “enti autonomi con
propri statuti, funzioni e poteri secondo i principi fissati dalla
Costituzione” (art. 114, secondo comma), ed hanno un potere regolamentare in
ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni
ad esse attribuite (art. 117, c. 6).
Le città
metropolitane, sempre per la Costituzione, sono titolari di funzioni
amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale,
secondo le rispettive competenze e possono esercitare quelle funzioni che, di
norma, spettano ai comuni ma che, allo scopo di assicurarne l’esercizio
unitario, possono esserle conferite sulla base dei principi di sussidiarietà,
differenziazione ed adeguatezza (art. 118).
Esse,
insieme con lo Stato, le regioni, le province e i comuni, devono favorire
l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di
attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà
orizzontale (art. 118, terzo comma).
Sono enti
dotati di autonomia finanziaria di entrata e di spesa e devono avere risorse
autonome e la possibilità di stabilire ed applicare tributi ed entrate proprie,
in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della
finanza pubblica e del sistema tributario, e di disporre di una
compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio
(art. 119). Le città metropolitane hanno un proprio patrimonio, attribuito
secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato (art. 119,
comma sesto).
Lo Stato
guadagna la competenza esclusiva in materia di legislazione elettorale, organi
di governo e funzioni fondamentali delle città metropolitane (, ai sensi
dell’art. 117, secondo comma, lett. p), mentre spetta alla competenza residuale
delle Regioni la potestà legislativa per le rimanenti materie (art. 117, quarto
comma).
2.4.
Legge “La Loggia” del 2003
La stessa
legge 5 giugno 2003, n. 131, emanata per adeguare l’ordinamento della
Repubblica alla riforma costituzionale del 2001, non ha fornito una nozione
generale di area metropolitana, né ne ha definito i caratteri, limitandosi a
delegare ogni decisione in merito al Governo, con poche indicazioni generiche.
Il Governo
veniva delegato, in particolare, ad adottare uno o più decreti legislativi
diretti alla individuazione delle funzioni fondamentali essenziali per il
funzionamento di Comuni, Province e Città metropolitane, nonché per il
soddisfacimento dei bisogni primari delle comunità di riferimento.
Questa legge
superava la previsione del Tuel, che affidava allo statuto della città
metropolitana, elaborato dagli stessi enti costituenti, il compito di
disciplinare gli organi e l’articolazione interna della Città metropolitana e
di definirne le funzioni. Diversamente, la riorganizzazione delle
circoscrizioni comunali e il riordino territoriale delle Province continuavano
ad essere regolati dall’art. 23, comma 6, del Tuel.
Come è noto,
il termine per l’adozione dei decreti delegati di cui alla legge La Loggia era
fissato al 31 dicembre 2005, ma la delega è rimasta del tutto inattuata.
2.5.
Legge sul federalismo fiscale del 2009
Il tema
della Città metropolitana è stato rilanciato, senza successo, dalla legge 5
maggio 2009, n. 42, recante “Delega al Governo in materia di federalismo
fiscale, in attuazione dell’art. 119 della Costituzione sul federalismo fiscale”.
L’art. 23
della legge n. 42 del 2009 introduceva “la disciplina per la prima
istituzione” delle Città metropolitane, in via “transitoria”, mentre
rinviava ad un’ “apposita legge”, la disciplina ordinaria sulle funzioni
fondamentali, gli organi e il sistema elettorale(art. 23, comma 1).
La legge,
cui rinviava l’art.23, comma 1, della legge n. 42/2009, avrebbe dovuto:
-
disciplinare il trasferimento delle funzioni e delle risorse umane, strumentali
e finanziarie inerenti alle funzioni trasferite alla città metropolitana
(art.23, comma 8);
- dare
attuazione “alle nuove perimetrazioni stabilite ai sensi (dell’art.
23)” della legge n.42/2009;
-
disciplinare l’esercizio dell’iniziativa da parte dei comuni della provincia
non inclusi nella perimetrazione dell’area metropolitana, in modo da assicurare
la scelta da parte di ciascuno di tali comuni circa l’inclusione nel territorio
della città metropolitana ovvero in altra provincia già esistente , nel
rispetto della continuità territoriale (art. 23, comma 9).
La città
metropolitana sperimentale – La legge n.
42 del 2009 aveva introdotto, in particolare, la possibilità di “sperimentare”
l’istituzione della città metropolitana prevedendone il relativo iter
procedimentale:
i. proposta
di istituzione della città metropolitana formulata da parte degli enti locali
individuati come a ciò legittimati (provincia o comune o entrambi), da
sottoporre al vaglio preventivo della Regione;
ii.
indizione di un referendum tra “ tutti i cittadini della Provincia” in
ordine alla proposta.
Nessun
comune o provincia delle aree interessate ha ritenuto di dovere sfruttare la
possibilità di sperimentare nel proprio territorio l’istituzione della città
metropolitana. La questione delle città metropolitane, quindi, è rimasta ancora
una volta irrisolta, anche a causa, fra l’altro, dell’immobilismo dei territori
interessati.
Nella legge
n.42 del 2009, era previsto un complesso di disposizioni sulle città
metropolitane, fra le quali, una disciplina per l’istituzione in via
transitoria e sperimentale delle città metropolitane (art. 23, comma 1). La
legge delega consentiva, in particolare, la facoltà di una prima istituzione
delle città metropolitane che sarebbe rimasta in vigore fino all’approvazione
di un’apposita legge ordinaria sulle modalità per la definitiva istituzione
delle città metropolitane, con la definizione delle funzioni fondamentali,
degli organi e del sistema elettorale.
L’istituzione
in via transitoria della città metropolitana era facoltativa ed avveniva a
conclusione di un articolato procedimento. Nello specifico, la legge n. 42
assegnava l’iniziativa al comune capoluogo e alla provincia, congiuntamente tra
di loro o separatamente, prevedendo che, se la proposta fosse stata presentata
solo da uno dei due enti locali, comune capoluogo o provincia, avrebbe dovuto
essere sostenuta da almeno il venti per cento dei comuni della provincia
interessata, che rappresentino nel complesso il sessanta per cento della
popolazione.
Prescriveva
che l’oggetto della proposta di istituzione della città metropolitana dovesse
essere composto da tre elementi: a) la perimetrazione della città
metropolitana; b) l’articolazione interna della stessa in comuni; c) una
proposta di statuto provvisorio.
Stabiliva
che la perimetrazione della città metropolitana, nel rispetto del principio di
continuità territoriale, doveva comprendere almeno tutti i comuni proponenti e
il comune capoluogo, e coincidere con il territorio di una sola provincia o di
una sua parte.
Prevedeva
che la proposta di statuto provvisorio avrebbe dovuto definire le forme di
coordinamento dell’azione di governo all’interno del territorio metropolitano e
disciplinare le modalità di scelta del presidente del consiglio provvisorio
della città metropolitana.
Disponeva,
inoltre, che, previa acquisizione del parere regionale doveva essere indetto un
referendum tra tutti i cittadini della provincia interessata, secondo la
disciplina di un apposito regolamento governativo da emanarsi con decreto del
Presidente della Repubblica.
Stabiliva,
ancora, che l’eventuale parere negativo della regione non precludeva il
proseguimento della procedura, ma incideva solo sul quorum di validità del
referendum confermativo fissato al trenta per cento degli aventi diritto, e non
richiesto in presenza di un parere positivo regionale.
L’ambito di
applicazione della disciplina transitoria riguardavo solo nove delle dieci
città metropolitane: restava esclusa la Città di Roma, destinataria nella
stessa legge di una specifica disciplina transitoria anch’essa con
effetti “fino all’attuazione della disciplina delle città metropolitane”,
ovvero fino all’adozione di un’apposita legge organica (art. 24).
La provincia
di riferimento cessava di esistere ed erano soppressi i relativi organi a
decorrere dalla data di insediamento dei nuovo organi (definitivi) della città
metropolitana” (art.23, c. 8).
Lo statuto
definitivo della città metropolitana doveva essere adottato dai competenti
organi entro sei mesi dalla data del loro insediamento” (art.23, c. 8).
Lo schema di
regolamento per lo svolgimento del referendum di cui all’art.23 della legge
n.42/2009 è stato approvato dal CdM solo in data 28 luglio 2011.
La legge n.
42 demandava ad uno specifico decreto legislativo il compito di assicurare il
finanziamento delle funzioni delle città metropolitane, anche mediante
l’attribuzione di specifici tributi, allo scopo di assicurare ai suddetti enti
una più ampia autonomia di entrata e di spesa, in relazione alla complessità
delle funzioni ad essi attribuite.
Prevedeva,
infine, che il suddetto decreto in parola contenga la disciplina concernente la
facoltà per le città metropolitane di applicare i tributi in relazione al
finanziamento delle spese riconducibili all’esercizio delle loro funzioni
fondamentali (art. 15).
Anche gli
articoli 23 e 24, commi 9 e 10, della suddetta legge 42 del 2009 sono
stati abrogati dal comma 1, ultimo periodo, dell’art. 18 del decreto legge n.
95 del 2012.
2.6 Proposta
UPI del 2012
Si ricorda
che anche l’UPI ha formulato nel 2012 una proposta di legge recante “Delega
al Governo per l’istituzione delle città metropolitane, la razionalizzazione
delle province, il riordino dell’amministrazione periferica dello Stato e degli
enti strumentali”.
Anche nella
proposta UPI rimane la scelta del modello sovra comunale strutturato ed
istituzionalizzato, ma esclusivamente di area vasta.
La proposta
conteneva, tuttavia, alcune novità; fra cui:
- la delega
legislativa al Governo ad emanare, entro quattro mesi, uno o più decreti
legislativi per l’istituzione delle città metropolitane, nell’ambito di una
regione, nelle materie previste dalla legge sul federalismo fiscale e per il
riordino delle provincie;
- la
definizione, entro un mese, attraverso un accordo in Conferenza Unificata,
degli indici demografici, geografici ed economici per la delimitazione delle
aree metropolitane e delle circoscrizione provinciale;
-
l’aggregazione dei comuni del territorio, entro i successivi due mesi, nelle
nuove circoscrizioni provinciali o metropolitane, nel rispetto del principio di
continuità territoriale;
- la
coincidenza del territorio della Città metropolitana con il territorio di una o
di più province;
- lo
svolgimento da parte della città metropolitana di tutte le funzioni della
provincia e del comune capoluogo di ambito metropolitano;
- l’assegnazione
alla città metropolitana delle risorse umane, strumentali e finanziarie.
Nel suddetta
proposta UPI, la città metropolitana prende il posto della provincia e del
comune capoluogo e si articola al suo interno in comuni metropolitani, con un
sindaco, la giunta e il consiglio eletti direttamente dai cittadini.
La proposta
UPI prevedeva anche la razionalizzazione delle circoscrizioni provinciali, con
la riduzione del numero delle province e il conseguente accorpamento degli
uffici territoriali di governo e l’eliminazione degli enti e le agenzie statali
e regionali e il conseguente passaggio delle funzioni amministrative alle
stesse province.
2.7. Nuova
Carta delle Autonomie
Come è noto,
è fermo al Senato, 1ª Commissione permanente (Affari Costituzionali), il
disegno di legge sulla nuova Carta delle Autonomie, (S. 22599), già licenziato
dalla Camera (C. 3118), per adeguare le funzioni degli enti locali alla riforma
del titolo V della Costituzione, con delega al Governo alla raccolta delle
disposizioni statali sugli enti locali.
Il progetto
della nuova Carta delle Autonomie conferma il procedimento istitutivo delle
città metropolitane previsto dalla legge n. 42 del 2009, individua gli organi
di governo del nuovo ente nel sindaco metropolitano e consiglio e giunta,
eletti a suffragio universale e diretto, salvo diversa disposizione statutaria,
e ne definisce le relative funzioni soprattutto in materia di pianificazione,
trasporti, mobilità.
3. Art. 18
del decreto legge del 2012
L’art. 18
del decreto legge n. 95 del 2012 introduce una nuova disciplina – la quarta –
sull’istituzione, le funzioni e gli organi delle Città metropolitane, con
contestuale abrogazione della precedente regolamentazione degli artt. 22 e 23
del Tuel e degli artt. 23 e 24, commi 9 e 10, della legge – delega n. 42 del
2009.
Diverse sono
le criticità dell’articolo 18. La disposizione, infatti, oltre a presentare
profili di incostituzionalità, risulta non chiara, a tratti confusa, di
complessa applicazione, e fonte di prevedibili aumenti dei costi specie, in
quei territori in cui sarà attuato il previsto frazionamento del comune
capoluogo in più comuni.
Dei punti di
debolezza di questo progetto si tratterà in relazione ai singoli aspetti della
disciplina. Fin d’ora è opportuno evidenziare, però, la sua prevedibile
vulnerabilità sotto il profilo di un eventuale scrutinio di costituzionalità,
per almeno tre aspetti fondamentali:
1) la
scelta dello strumento della decretazione d’urgenza, in mancanza evidente
dei presupposti della straordinaria necessità ed urgenza richiesti dall’art. 77
della Costituzione;
2) lo
scioglimento anticipato degli organi eletti a suffragio universale e diretto,
prima della loro naturale scadenza, in violazione degli articoli 1, 5 e 114
della Costituzione;
3)la
configurazione della città metropolitana come ente di secondo grado, in
contrasto con gli articoli 5 e 114 della Costituzione.
Primo. Per la Corte costituzionale, il Governo può legittimamente adottare
provvedimenti provvisori con forza di legge solo alla presenza di una “evidente
emergenza costituzionale”, ossia solo se, ricorrendo una circostanza
eccezionale ed imprevedibile, non sia possibile utilizzare gli strumenti
legislativi ordinari per la necessità di produrre subito gli effetti della
norma. Il Giudice delle leggi ha ritenuto che l’evidente mancanza dei
presupposti costituzionali configuri un vizio in procedendo della stessa legge
di conversione e come tale sindacabile sotto l’aspetto della legittimità
costituzionale, rifiutando di riconoscere efficacia sanante dei vizi alla legge
di conversione (ex plurimis, sentenza n. 29 del 1995, n. 330 del 1996 e
più di recente, sentenze n. 341 del 2003, n. 6 e n. 299 del 2004, n. 272 del
2005 e n.171 del 2007). Mentre è ormai superato l’opposto orientamento,
sostenuto per un certo periodo anche dalla stessa Corte costituzionale, secondo
cui il giudizio su quali materie rivestano natura emergenziale, dopo la
conversione in legge, doveva ritenersi sottratto alla valutazione del diritto.
Ciò in quanto le Camere con la conversione opererebbero una vera e propria
novazione della fonte con effetti quindi sananti anche della mancanza dei
presupposti costituzionali (ex multis, Corte cost. sentenze n. 108 del
1986, n. 808 del 1988, n. 263 del 1994 e fra le altre più recenti, n. 419 del 2000,
n. 376 del 2001 e 29 del 2002; in dottrina, Giuseppe Marazzita, L’emergenza
costituzionale. Definizioni e modelli, Milano, 2003).
La mancanza
nell’art. 18 dei presupposti costituzionali per la decretazione d’urgenza è del
tutto evidente. In primo luogo, sono assenti i presupposti dell’eccezionalità e
dell’imprevedibilità, essendo la “città metropolitana” già regolata nel nostro
ordinamento (testo unico degli enti locali del 2000 e legge delega sul
federalismo fiscale del 2009). Manca, poi, il presupposto della necessità di
far decorrere da subito gli effetti della norma: la decorrenza della
disposizione è fissata alla scadenza dei consigli in carica e per quelli in
scadenza dopo il 31 dicembre 2013, al 1° gennaio 2014, cioè a distanza di
diversi mesi dall’emanazione del decreto, tempo ragionevolmente più che
sufficiente per consentire il ricorso alla legislazione ordinaria.
Non è
rinvenibile, inoltre, un collegamento dell’art. 18 all’obiettivo generale dello
stesso decreto legge: la disposizione in esame, infatti, individua
espressamente la ragione della sua emanazione nell’attuazione degli articoli
114 e 117, comma 2, lett. p, della Costituzione, ossia nelle norme sulle
autonomie locali, mentre l’oggetto e le finalità del decreto risiedono nella
necessità di ridurre la spesa pubblica per centrare gli obiettivi imposti
all’Italia dall’appartenenza alla Comunità europea.
Sembra del
tutto evidente che si tratta anche in questo caso, come ha rilevato la Corte
costituzionale per altre fattispecie, di una norma “intrusa“, inserita
in un decreto-legge relativo a misure di finanza pubblica. L’art. 77, secondo
comma, della Costituzione impone, infatti, il collegamento dell’intero decreto
legge al caso straordinario di necessità ed urgenza impedendo di trasformare “il
decreto legge in una congerie di norme assemblate soltanto da mera casualità
temporale” (da ultimo, Corte cost. sentenza n. 22 del 13 – 16 febbraio
2012). Lo stesso art. 15, comma 3, della legge 23 agosto 1998, n. 400, sulla
disciplina dell’attività di Governo, prescrive, in esplicitazione della ratio
implicita del secondo comma dell’art. 77 della Costituzione, che il contenuto
del decreto legge debba essere “specifico, omogeneo e corrispondente al
titolo“.
Nella stessa
relazione tecnica di accompagnamento del decreto legge n. 95, manca in
relazione all’art. 18 qualsiasi riferimento, anche non quantificato, alle
economie di spesa derivanti dall’istituzione di questo nuovo livello di
governo.
La “evidente
estraneità” della norma rispetto alla materia disciplinata dalle altre
disposizioni del decreto legge in cui è inserita, è uno dei parametri di
verifica dell’evidenza o meno della “carenza del requisito della
straordinarietà del caso di necessità e d’urgenza di provvedere” (Corte
cost. sentenze n. 171 del 2007 e 128 del 2008; n. 22 del 2012).Secondo.
L’altro aspetto che desta serie perplessità di conformità costituzionale è il
previsto scioglimento degli organi elettivi prima della loro naturale scadenza,
con la previsione, per decreto, della decorrenza della soppressione delle
province e dell’istituzione delle città metropolitane dal 1° gennaio 2014. E’
questo un precedente pericoloso, che si somma all’altra forzatura dell’art. 23,
comma 20, del decreto legge n. 201 del 2011 (cosiddetto Salva Italia) di commissariamento
delle province che sarebbero dovute andare al voto nel 2012.
Terzo. La configurazione della città metropolitana come ente di secondo grado,
sembra contrastare con gli articoli 5 e 114 della Costituzione, che hanno
assimilato nello stesso regime le diverse componenti della Repubblica
configurandoli, in particolare, come enti politici rappresentativi della
collettività inclusa nell’ambito territoriale di riferimento, e, quindi, come
enti di governo elettivi di primo grado.
Oltre ai
profili di costituzionalità, si rilevano nella disposizione diverse ambiguità
fonte di incertezza interpretativa. La tecnica normativa per la disciplina
dell’opzione dei comuni fra la città metropolitana e una provincia limitrofa,
in particolare, è talmente confusa, carente e disorganica da risultare
irragionevole. Non è previsto il termine per l’esercizio del potere
d’iniziativa da parte dei consigli comunali, ricavabile solo dal comma 4
dell’art. 17 sul riordino delle province. Quest’ultima disposizione, infatti, con
riferimento all’ “atto legislativo” di iniziativa governativa di riordino delle
province, fa riferimento oltre che alle proposte regionali anche alla “contestuale
definizione dell’ambito delle città metropolitane di cui all’art. 18,
conseguente alle eventuali iniziative dei comuni ai sensi dell’art. 133, primo
comma della Costituzione nonché del comma 2 del medesimo articolo 18”.
Non è chiaro
il significato di provincia “limitrofa”, cui i comuni dissenzienti possono
aderire, specie per gli enti che confinano solo con circoscrizioni provinciali
di regioni a statuto speciale o con altri comuni della stessa provincia. Resta
il dubbio se l’adesione ad una provincia limitrofa possa essere deliberata solo
da un comune oggi confinante con altra provincia oppure, in senso più ampio,
anche da altro comune in contiguità territoriale con quello che ha già
deliberato l’opzione di adesione alla provincia limitrofa.
Non è chiaro
neppure se, per l’individuazione della provincia limitrofa, debba farsi
riferimento alla situazione antecedente al piano di riordino delle
circoscrizione provinciali di cui all’art. 17 dello stesso decreto, oppure se i
comuni deve tenere conto nell’esercizio dell’iniziativa dei nuovi limiti
dimensionali previsti per il mantenimento delle province. Ed ancora, se
l’iniziativa comunale vincoli la scelta del consiglio delle Autonomie locali
(CAL), e della regione e entro quali limiti.
La
disciplina – L’art. 18 istituisce le dieci città
metropolitane di Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari,
Napoli e Reggio Calabria, con contestuale soppressione delle Province dei
relativi territori. Il legislatore del 2012 opta, diversamente dal passato, per
l’individuazione puntuale delle Città metropolitane.
Prevede,
infatti, l’obbligatoria coincidenza del territorio delle Città metropolitane
con quello delle province soppresse, mitigandola con la possibilità offerta ai
comuni interessati di deliberare, con atto del consiglio, l’adesione, in
alternativa alla città metropolitana, ad una provincia limitrofa ai sensi
dell’art. 133 della Costituzione (art. 118, c. 2).
Questa è la
prima novità di rilievo della nuova disciplina. Come ricordato, le precedenti
disposizioni normative prevedevano, invece, che il territorio della città
metropolitana potesse coincidere anche solo con parte del territorio
provinciale, lasciando la decisone alla Regione (legge n. 142), allo statuto
della stessa città metropolitana (Tuel), o alla proposta istitutiva della Città
metropolitana (L. 42 del 2009).
Questo
aspetto accentua la debolezza del provvedimento e potrebbe decretarne il suo
definitivo fallimento. L’obbligatoria coincidenza della città metropolitana con
il territorio della provincia non è un modello adeguato per tutte le dieci aree
metropolitane. In alcune di queste sarebbe stata più funzionale e realizzabile
una “conurbazione”, ossia l’individuazione come territorio della città
metropolitana solo dell’area comprendente il comune capoluogo e le altre città
che, con la crescita della popolazione e l’espansione urbana, si sono saldate
fra loro o con parte del territorio del comune capoluogo, o un’agglomerazione
se la città più grande ha inglobato, con la sua espansione, i centri minori.
Decorrenza –
La decorrenza della soppressione delle province e
dell’istituzione delle città metropolitane è fissata al 1° gennaio 2014, ovvero
precedentemente, in caso di cessazione o scioglimento del consiglio
provinciale, o di scadenza dell’incarico del commissario entro il 31 dicembre
2013 (comma 1). Non sono stati accolti i diversi emendamenti presentati in sede
di conversione tesi a far coincidere l’istituzione della città metropolitana
con la scadenza, per qualsiasi ragione, degli organi di governo in carica.
Questo è un
altro aspetto di estrema debolezza del provvedimento per i profili di
incostituzionalità di cui si è già trattato.
Articolazione
facoltativa del territorio del capoluogo – Il
comma 2-bis introduce la possibilità di inserire nello statuto della città
metropolitana, su proposta del comune capoluogo, deliberata con il voto
favorevole dei due terzi dei consiglieri o, in mancanza di questo quorum
qualificato, con il voto per due volte favorevole della maggioranza assoluta
dei consiglieri assegnati, l’articolazione del territorio del comune capoluogo
in più comuni. In questa ipotesi è prevista l’acquisizione del parere della
regione e l’indizione di un referendum fra tutti i cittadini della città
metropolitana. Come nel caso del referendum previsto dall’art. 23 della legge
42 del 2009, l’eventuale parere negativo della regione non preclude il
proseguimento della procedura di approvazione dello statuto della città
metropolitana, ma incide sul quorum di validità della consultazione, fissato al
trenta per cento degli aventi diritto, e non richiesto in presenza di un parere
positivo regionale.
Nell’ipotesi
di frazionamento del comune capoluogo in più comuni, il capoluogo della regione
diventa la città metropolitana che comprende nel proprio territorio il comune
capoluogo di regione (comma 2-bis). E lo statuto può prevedere che il sindaco
metropolitano sia eletto a suffragio universale e diretto (comma 4, lett. c).
Anche la
legge n. 142 del 1990 prevedeva la possibilità di istituzione di nuovi comuni
per scorporo da aree di intensa urbanizzazione o per fusione di comuni
contigui, ma in quel caso, il riordino riguardava l’intero territorio
metropolitano, e non solo il comune capoluogo, ed era di competenza della
regione art. 20).
Lo stesso
Tuel prevedeva che, una volta istituita la città metropolitana, la regione,
previa intesa con gli enti locali interessati, potesse procedere alla revisione
delle circoscrizioni territoriali dei comuni compresi nell’area metropolitana
(art. 25).
Per quanto
riguarda la previsione del referendum, si ricorda che la legge 142 del 1990 non
prevedeva la consultazione popolare nel procedimento istitutivo della città
metropolitana, ma affidava le decisioni alla regione sentiti i comuni
interessati.
Il Tuel,
invece, richiedeva il referendum confermativo sulla proposta di istituzione
della città metropolitana da svolgersi in ogni comune partecipante alla città
metropolitana, come presupposto di procedibilità della stessa proposta. Solo,
infatti, nel caso di voto favorevole della maggioranza degli aventi diritto
espressa nella metà più uno dei comuni partecipanti, la proposta poteva essere
presentata dalla regione ad una delle due Camere.
Anche l’art.
23 della legge 42 del 2009 introduceva il referendum sulla proposta istituiva
della città metropolitana in via transitoria e sperimentale, con quorum
differenziati a seconda del parere favorevole o meno della regione.
Statuto – Le città metropolitane avranno uno statuto provvisorio e uno definitivo. Il
contenuto minimo dei due atti è lo stesso (comma 9), mentre diversa è la
competenza e la procedura per la loro approvazione.
Lo statuto
ha un contenuto obbligatorio ed uno facoltativo. Esso dovrà regolare aspetti
organizzativi, che sarebbe stato più opportuno affidare allo strumento
regolamentare, quali l’organizzazione interna e le modalità di funzionamento
degli organi e le modalità di organizzazione ed esercizio delle funzione.
Dovrà, inoltre, regolamentare le forme di indirizzo e di coordinamento
dell’azione complessiva di governo del territorio, individuando, ad esempio,
gli strumenti che saranno utilizzati per pianificare e programmare le linee
generali di politica in questo ambito. Dovrà prevedere, ancora, le modalità con
cui la città metropolitana potrà conferire ai comuni, o alle loro forme
associative, proprie funzioni, o riceverne.
Lo statuto
ha la possibilità, infine, di disciplinare le modalità per eventuali
accordi con i comuni non compresi nel territorio metropolitano e, si aggiunge,
tutti gli altri aspetti che la conferenza metropolitana, per il provvisorio, o
il consiglio metropolitano, per il definitivo, riterrà opportuno declinare
almeno in via di principio.
Rispetto
alla precedente disciplina della legge n. 42 del 2009 e del Tuel, il contenuto
dello statuto è più limitato, per la scelta costituzionale di riservare alla
potestà legislativa esclusiva dello Stato, oltre alla legislazione elettorale,
anche la materia degli organi e delle funzioni fondamentali prima rimessi
all’autonomia normativa delle città metropolitane.
Lo statuto
provvisorio è di competenza di un apposito organismo temporaneo, la conferenza
metropolitana, composta dai sindaci dei comuni del territorio e dal presidente
della provincia. La conferenza ha tempo per deliberare lo statuto provvisorio
fino al novantesimo giorno antecedente alla scadenza del mandato del presidente
della Provincia o del commissario, ove anteriore al 2014, ovvero entro il 31
ottobre 2013.
Per la sua
approvazione, è richiesta una maggioranza particolarmente qualificata: il voto
dei due terzi dei componenti della Conferenza e, in ogni caso, il voto
favorevole sia del sindaco del comune capoluogo che del presidente della
provincia. Questo statuto avrà, però, vita breve, in quanto destinato ad essere
sostituito da quello definitivo, ragione per cui è difficile giustificare la
scelta di predisporre un contenuto normativo così ampio.
Non è
chiarito a chi competa la convocazione della Conferenza metropolitana. In
applicazione del principio di leale collaborazione, l’organismo dovrebbe essere
convocato d’intesa fra il sindaco del comune capoluogo e il presidente della
provincia.
Per la
perentorietà del termine e, soprattutto, per gli alti quorum di approvazione
richiesti, potrebbe accadere che la Conferenza non riesca a deliberare lo
statuto provvisorio. In questo caso, scatterà la salvaguardia prevista dal
comma 3-ter e il sindaco del comune capoluogo diventerà di diritto il sindaco
metropolitano fino all’approvazione dello statuto definitivo da parte del
consiglio metropolitano.
Lo statuto
definitivo dovrà essere adottato dal consiglio metropolitano a maggioranza
assoluta, entro sei mesi dalla prima convocazione e previo parere dei comuni
(comma 9).
La norma non
richiede per la sua deliberazione una maggioranza qualificata, come per lo
statuto provvisorio e come prescritto per gli statuti dei comuni e delle
province dall’art. 6, comma 4, del Tuel. Non specifica neppure se il quorum
funzionale debba essere calcolato sul numero dei consiglieri assegnati, sui
presenti o sui votanti.
Organi – L’art. 18 individua due soli organi della Città metropolitana: il sindaco e
il consiglio metropolitano.
La legge n.
142 del 1990 prevedeva, invece, oltre al sindaco e al consiglio, anche la
giunta, organi tutti da eleggere a suffragio universale e diretto secondo le
modalità ,prevista per le province, fino all’emanazione della nuova legge elettorale
specifica.
Il Tuel
rimetteva allo statuto di definire l’organizzazione e l’articolazione interna
della città metropolitana, prevedendo solo che gli organi andavano eletti nel
primo turno utile ai sensi delle leggi vigenti in materia di elezioni degli
enti locali (art. 23).
Per ciò che
riguarda il “sindaco metropolitano”, l’art. 18 rinvia allo statuto della
città metropolitana la scelta se individuare questa figura nel sindaco del
comune capoluogo, oppure in un soggetto eletto secondo le modalità per l’elezione
del presidente della provincia, o, nell’ipotesi di frazionamento del comune
capoluogo in più comuni, eletto a suffragio universale e diretto.
Il “consiglio
metropolitano” sarà composto da un minimo di 10 ad un massimo di 16
componenti, a seconda della popolazione residente, eletti in modo indiretto tra
i sindaci e i consiglieri dei comuni ricompresi nel territorio della città
metropolitana, da un collegio formato da sindaci e consiglieri dei medesimi
comuni, secondo le stesse modalità di elezione, da stabilirsi con legge dello
Stato, per il consiglio provinciale. L’elezione dovrà avere luogo entro
quarantacinque giorni dalla proclamazione del sindaco del comune del capoluogo
o contestualmente all’elezione del sindaco metropolitano, a seconda se la scelta
dello statuto è stata, rispettivamente, per il sindaco di diritto o per il
sindaco eletto.
La
titolarità delle cariche di consigliere metropolitano, di sindaco e vicesindaco
è solo onorifica e non comporta alcuna forma di remunerazione (comma 10).
La
previsione di solo due organi, sindaco metropolitano e consiglio metropolitano,
priva le città metropolitane, al pari delle nuove province, dell’organo
esecutivo, la giunta, ossia dell’ organo collegiale storico degli enti locali
cui la città metropolitana è costituzionalmente equiparata.
Funzioni – Alla città metropolitana compete lo svolgimento delle funzioni fondamentali
previste dall’art. 18, di quelle ulteriori eventualmente da conferire dallo
Stato e dalla regione in base alla previsione del comma 11-bis, e, nel caso,
dai comuni con le modalità stabilite dallo statuto.
Manca un
riferimento al necessario coordinamento delle funzioni metropolitane con quelle
comunali e regionali per le materie in cui la normativa prevede il concorso di
più livelli di governo, presente invece nella legge 142 del 1990, secondo cui “..
la legge regionale, nel ripartire fra i comuni e la città metropolitana le
funzioni amministrative, attribuisce alla città metropolitana, oltre alle
funzioni di competenza provinciale, le funzioni normalmente affidate ai comuni
quando hanno precipuo carattere sovracomunale o debbono, per ragioni di
economicità ed efficienza, essere svolte in forma coordinata nell’area
metropolitana ..” (art. 19).
Sarebbe
stato opportuno richiamare il principio, nei fatti fortemente disatteso nel
decentramento amministrativo dell’ultimo decennio, dell’assoluta unicità delle
competenze per ogni componente della Repubblica, sancito dalla legge 15 marzo
1997, n. 59, secondo cui fra i criteri da osservare nel decentramento delle
funzioni, rileva anche quello “… di responsabilità ed unicità
dell’amministrazione, con la conseguente attribuzione ad un unico soggetto
delle funzioni e dei compiti connessi, strumentali e complementari, e quello di
identificabilità in capo ad un unico soggetto anche associativo della
responsabilità di ciascun servizio o attività amministrativa”.
Alle Città
metropolitane sono attribuite, innanzitutto, le funzioni fondamentali delle
province (comma 7), e, quindi, quelle elencate al comma 10 dell’art. 17:
a)
coordinamento ed indirizzo dell’attività dei comuni;
b)
pianificazione territoriale provinciale di coordinamento;
c) tutela e
valorizzazione dell’ambiente, per gli aspetti di competenza;
d)
pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale;
e)
autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato;
f)
costruzione, classificazione e gestione delle strade provinciali e regolazione
della circolazione stradale ad esse inerente.
g)
programmazione della rete scolastica e gestione dell’edilizia scolastica
relative alle scuole secondarie di secondo grado;
Son
assegnate, inoltre, al nuovo ente le seguenti ulteriori funzioni, qualificate
anch’esse come fondamentali:
a) la
pianificazione territoriale generale e delle reti infrastrutturali;
b) la
strutturazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici, nonché
organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito
metropolitano;
c) la
mobilità e viabilità;la promozione e il coordinamento dello sviluppo economico
e sociale;
Il bagaglio
delle funzioni delle città metropolitane sarà arricchito dalla funzioni
conferite dallo Stato e dalle regione e, eventualmente, dai comuni dell’area
metropolitana.
Lo Stato e
le regioni, infatti, ciascuno per le proprie competenze, sono tenuti ad
attribuire alle Città metropolitane ulteriori funzioni, in attuazione dei
principi costituzionali di sussidiarietà, di differenziazione e adeguatezza
(comma 11-bis). Anche i comuni potranno conferire alla città metropolitana
ulteriori funzioni con le modalità previste dallo statuto metropolitano (comma
9, lett. d).
Il
conferimento delle funzioni dovrà essere accompagnato, in ogni caso, dalla
definizione delle risorse strumentali, finanziarie e umane per il loro
svolgimento.
Sono
assegnate, comunque, alle città metropolitane il patrimonio, le risorse umane e
strumentali delle province soppresse.
La legge n.
142 del 1990 demandava alla legge regionale di attribuire alla città
metropolitana, oltre alle funzioni di competenza provinciale, le funzioni
normalmente affidate ai comuni di precipuo carattere sovracomunale o da
svolgere, per ragioni di economicità ed efficienza, in forma coordinata
nell’area metropolitana, nell’ambito delle materie della pianificazione
territoriale dell’area, della viabilità, del traffico e dei trasporti, e di
tutela e valorizzazione dei beni culturali e dell’ambiente; della difesa del
suolo, della tutela idrogeologica; della tutela e valorizzazione delle risorse
idriche, smaltimento dei rifiuti, ecc (art. 19).
Il Tuel,
invece, oltre alle funzioni della provincia, rinviava allo statuto della città
metropolitana la definizione delle funzioni (art. 23)
Regole
applicabili – Alle città metropolitane si applicano le norme del Tuel relative ai comuni
e quelle sull’autonomia normativa dell’art. 4 della legge 131 del 2003.
Sul punto, è
da annotare che in sede di conversione è stata aggiunta la precisazione che il
riferimento alle norme del Tuel è solo a quelle relative ai comuni.
Mentre nella legislazione precedente il rinvio era stato operato con
riferimento, in prevalenza, all’ordinamento delle province.
4.
Considerazioni conclusive
Il giudizio
complessivo su questo ennesimo tentativo di disciplina delle città
metropolitane è negativo, in discordanza con l’opinione maggioritaria che,
semmai si limita a chiosare su aspetti specifici della nuova disciplina, ma non
ne contesta nel suo complesso l’impianto.
Sembra che
il nuovo modello di città metropolitana disegnato dall’art. 18 della spending
review sia un ritorno al passato, alla disciplina uniforme e rigida della prima
normativa organica in materia del 1990, di cui riproduce, aggravandoli, difetti,
carenze e rigidità.
Il decreto
n. 95/2012, infatti, anziché far tesoro dell’esperienza dei passati fallimenti,
insiste su uno schema unico, astratto ed omogeneo di città metropolitana entro
cui assumere rigidamente tutte le situazioni territoriali individuate dalla
stessa norma.
Irrigidisce,
addirittura, la soluzione strutturale della riforma dei poteri locali del 1990,
eliminando, con la forzata coincidenza del territorio metropolitano con quello
provinciale, anche l’ipotesi di definire un’area più ristretta comprendente
solo il comune capoluogo e i comuni urbani collegati.
L’art. 18
del decreto – legge n. 95 abbandona, in via definitiva, con la scelta del
rigido modello sovracomunale e strutturale della legge n. 142 del 1990, la
possibilità di una soluzione meramente funzionalistica e volontaria.
strutturata sul modello francese, come abbozzata dal Tuel con la
possibilità offerta alla regione di optare, in alternativa alla città
metropolitana, per l’azione di cooperazione collaborativa dei comuni (art. 24 Tuel).
Il progetto
risente anche della complessità e delle ambiguità di quello di riordino delle
province avviato dall’art. 17 dello stesso decreto – legge n. 95, cui è
fortemente collegato per due ragioni. Primo: l’iniziativa legislativa di riordino
delle province dovrà tenere conto anche delle iniziative dei comuni delle
istituende città metropolitane di aderire ad altra provincia limitrofa (art.
17, c.4). In secondo luogo, considerato che le città metropolitane sono
chiamate a svolgere anche le funzioni provinciali, occorrerà attendere il
decreto che definirà l’elenco di quelle sottratte alle province e trasferite ai
comuni (art. 17, c. 6).
Il progetto
è destinato ad un probabile insuccesso e, se attuato, rischia di consegnare
alla collettività solo una nuova provincia, rinominata “città metropolitana”;
lo stesso ente provinciale rafforzato nelle funzioni di area vasta, ma
fortemente indebolito nella sua rappresentatività democratica della
collettività amministrata a causa dell’elezione indiretta dei suoi organi di
governo.
Un ente, in
altri termini, nuovo solo nella forma, inadeguato a risolvere le complesse
problematiche delle concentrazioni urbane e delle “città – diffuse” di
cui si è fatto cenno in premessa.
A ben
vedere, in una prospettiva de jure condendo, il maggior difetto della
disciplina dell’articolo 18 consiste nel non aver saputo cogliere, nel merito,
la specificità della città metropolitana.
E’
abbastanza evidente come l’attivazione di questo ente sia fortemente connessa
alla possibilità, da parte del legislatore, di dimostrare che siano state
simmetricamente “tagliate” altrettante province. Come si è detto, di fatto la
configurazione delle città metropolitane nel d.l. n. 95/2012 è sostanzialmente
quella di una provincia sotto altro nome, sia pur con la differenza di qualche
funzione fondamentale in più.
E’ proprio,
tuttavia, sulle funzioni, più che sulla dimensione territoriale (comunque
strategica) che il legislatore dovrebbe puntare per dare effettività ad un ente
come la città metropolitana ed evitare il rischio di un cambiamento
gattopardesco, volto a non modificare nulla. La peculiarità di una città
metropolitana non discende dall’esercizio delle funzioni “di area vasta” o,
comunque, da riservare ad un ente intermedio tra il comune e la regione.
Non ha
alcuna rilevanza, per la fisionomia e la funzione di una città metropolitana
vera e propria, affidarle, ad esempio, la funzione provinciale qualificata come
fondamentale della “programmazione provinciale della rete scolastica e gestione
dell’edilizia scolastica relativa alle scuole secondarie di secondo grado”.
Una città
metropolitana vera e propria deve attendere al fondamentale compito, piuttosto,
di assicurare nell’hinterland composito e complesso che la caratterizza orari,
trasporti pubblici, collegamenti telematici, ecc coordinati, evoluti e
sviluppati.
La funzione
fondamentale della “mobilità e viabilità” risulta, allora, quella rilevante e
strategica, ma si dovrebbe specificare che il sindaco metropolitano dovrebbe
assumere al posto dei sindaci dei comuni dell’area metropolitane anche le
competenze proprie di quest’ultimi in questo ambito.
La città
metropolitana, insomma, tale è solo ed esclusivamente se non risulti la mera
riconfigurazione politico-amministrativo-geografica di una provincia: a questo
punto, basterebbe rivedere le funzioni di tutte le province alla luce di quanto
prevede l’articolo 18 della legge 135/2012 (e forse non sarebbe una cattiva
idea), per dare un minimo di razionalità all’intervento oggettivamente frettoloso,
sconnesso e poco efficace della “spending review”.
Un altro
esempio riguarda la non ben definita funzione fondamentale relativa alla
“promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale”. Si tratta solo
di un titolo, che andrebbe arricchito di contenuti e, soprattutto, ben tarato
rispetto alle rilevanti e pervasive competenze che in tema di sviluppo
economico e sociale hanno Stato e regioni. Basti pensare, ad esempio, al tema
delle vertenze per esuberi lavorativi delle grandi aziende, degli incentivi
alle imprese, del sostegno ad infrastrutture e telematica, all’operato di
promozione delle Camere di commercio.
Nessun ente
locale, non il comune, non le province, assume parte effettivamente attiva in
politiche di sviluppo di questo genere. I comuni possono creare l’humus per
progetti di sviluppo, mediante una pianificazione territoriale e sociale
adeguata. Le province possono concorrere allo sviluppo con le politiche attive
del lavoro (fin quando e se resteranno loro appannaggio), ma non attraverso
iniziative per l’incentivazione delle attività economiche.
Sull’esempio
di Roma Capitale, la città metropolitana per essere realmente utile e diversa
dagli altri enti locali dovrebbe essere, allora, dotata di specifiche
competenze, sottratte a Stato e regioni o, in alcuni casi, in concorso con
esse, finalizzate allo sviluppo economico. I grandi appalti per i nodi
autostradali, gli aeroporti; le vertenze sulle crisi aziendali delle grandi
aziende (che impiegano generalmente lavoratori dell’hinterland); le iniziative
di promozione dell’economia e delle aziende anche all’estero (caso Expo, ad
esempio). Sono queste, per fermarsi a qualche esempio, le funzioni che
dovrebbero caratterizzare le città metropolitane per rendere davvero utili per
il territorio.
Se si
partisse da un’analisi concreta di quello che una città metropolitana dovrebbe
fare e, dunque, quali competenze gestire, risulterebbe anche più semplice
comprendere come non sempre, nella realtà quasi mai, l’estensione territoriale
della città metropolitana debba coincidere con quella della provincia cui
succederebbe. Si prenda il caso eclatante di Venezia: a parte il fatto che la
città di Venezia, la laguna, farebbero di essa un caso a parte, più una “
città – stato” (sul modello delle anseatiche tedesche) che non una città
metropolitana, comprendendo, comunque, Mestre e Marghera, si capisce
perfettamente che con la città metropolitana veneziana nulla abbiano a che fare
i territori dell’est dell’attuale provincia, proiettati economicamente e
territorialmente, verso il Friuli Venezia Giulia. Per comuni come San Michele
al Tagliamento, Gruaro, San Donà di Piave, Portogruaro, Concordia Sagittaria,
ecc è più Pordenone o Udine il polo di attrazione economico, ospedaliero e
lavorativo, che non Venezia.
La città
metropolitana veneziana, pertanto, se realmente mirata alle necessità di
collegamenti, economiche, lavorative del suo reale hinterland, dovrebbe
contenersi entro confini molto più ristretti di quelli della provincia cui
succederebbe.
La
frettolosità con la quale il dl. n. 95/2012 prova a ridisegnare gli assetti
delle province e, di conseguenza, delle città metropolitane, mentre svuota le
prime, non riesce a caratterizzare e finalizzare utilmente le seconde.
L’impressione
è, dunque, di un disegno non solo incompiuto, ma lasciato solo allo stato
embrionale, per dare un “segnale” di cambiamento, senza che effettivamente sul
piano ordinamentale le potenzialità della città metropolitana siano nemmeno
minimamente attivate nella loro pienezza.
In questo
senso, il tentativo di attivare le città metropolitane appare condizionato
dalla frettolosità e sommarietà del complesso del “riordino” delle province,
come dimostra il più evidente degli elementi di criticità della norma: la
sostanziale sovrapposizione delle città metropolitane alle province soppresse,
il che determina l’effetto del semplice “cambio del nome” dell’istituzione.
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