Prof. Aw. Piero Alberto Capotosti
Emerito dì Diritto pubblico nella
Università "La Sapienza"
di Roma
Roma, 17 settembre 2012
P A R E R E
Oggetto:Parere in ordine
all'interpretazione del quadro costituzionale applicabile al procedimento di
riordino delle Province previsto dall'art. 17 del decreto-legge n. 95 del 6
luglio 2012, come convertito con I. 7 agosto 2012, n. 135.
1. — Mi è
stato richiesto parere sui profili di legittimità costituzionale dell'art. 17
del d.l. 6 luglio 2012 n. 95, come convertito dalla legge 7 agosto 2012, n.
135, che introduce, anche a seguito delle modifiche apportate in sede di
conversione, un procedimento articolato e del tutto innovativo ai fini, secondo
quanto dichiara la rubrica attualmente vigente della disposizione, del
"riordino" delle province.
Secondo una
scansione delle diverse fasi connotata da termini apparentemente serrati, la
norma, in particolare, prevede che
"entro
dieci giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il Consiglio
dei ministri determina, con apposita deliberazione ... il riordino delle
province sulla base di requisiti minimi, da individuarsi nella dimensione
territoriale e nella popolazione residente in ciascuna provincia" (art. 17, comma 2). La delibera è stata adottata dal Consiglio dei Ministri
il 20 luglio ed è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 24 luglio 2012.
"Entro
settanta giorni da tale pubblicazione - prosegue
la disposizione - // Consiglio delle autonomie locali di ogni regione a
statuto ordinario o, in mancanza, l'organo regionale di raccordo tra regioni ed
enti locali... approva una ipotesi di riordino relativa alle province
ubicate nel territorio della rispettiva regione e la invia alla regione
medesima entro il giorno successivo (art. 17, comma 3, primo periodo).
Considerando
anche il caso che il Consiglio delle Autonomie Locali (CAI) non adempia alla
formulazione dell'ipotesi di riordino, la norma prevede poi che
"Entro
venti giorni dalla data di trasmissione dell'ipotesi di riordino o, comunque,
anche in mancanza della trasmissione, trascorsi novantadue giorni dalla citata
data di pubblicazione ciascuna regione trasmette al Governo una proposta di
riordino delle province ubicate nel proprio territorio" (art. 17, comma 3, secondo periodo).
Infine, essa
dispone che
"entro
sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del
presente decreto, con atto legislativo di iniziativa governativa le province
sono riordinate sulla base delle proposte regionali di cui al comma 3" (art. 17, comma 4). Anche qui il legislatore considera l'ipotesi che le
proposte regionali non pervengano nel termine, e dispone che il provvedimento
legislativo di riordino venga assunto, nel caso, "previo parere" della
Conferenza unificata Stato-Regioni.
2 . —
Occorre subito osservare che, dettando una tale disciplina, l'art. 17 in esame
si pone in linea di continuità con le previsioni contenute nell'art. 23 del
d.l. 6.12.2011 (convertito nella legge n. 214 del 2011) e con l'opera di
"svuotamento" degli organi e delle funzioni provinciali che il predetto
art. 23 ha effettato, anticipando una sostanziale "soppressione"
delle Province in vista di quella formale, da attuare con una futura legge
costituzionale. Si trattava di un disegno legislativo che, secondo l'opinione
di molti costituzionalisti, presentava forti dubbi di costituzionalità
soprattutto in riferimento al fatto che le Province non sono soltanto enti
territoriali autonomi, ma, ai sensi dell'art. 114 Cost., elementi costitutivi
della Repubblica.
D'altra
parte, che la disciplina recata dall'art. 17 cit. sia anch'essa finalizzata
alla soppressione di Province è rivelato dalla stessa rubrica dell'articolo, la
quale nel testo originario del decreto legge così
s'intitolava:"Soppressione e razionalizzazione delle province e loro
funzioni". La sostituzione del termine "soppressione" con
"riordino", effettuato nella legge di conversione, in realtà è solo
un aspetto formale, giacché, anche dopo le modifiche della legge di
conversione, continua egualmente a porsi, come conseguenza del "riordino",
un problema di soppressione di molte delle Province italiane, poiché la logica
del processo di rivisitazione dei territori provinciali si ripropone
chiaramente di giungere ad una drastica riduzione del numero delle Province,
alimentando così rilevanti perplessità di ordine costituzionalistico sull'art.
17 medesimo.
3. — In
questa ottica, in primo luogo è da chiedersi se il ricorso alla decretazione di
urgenza, nel caso in esame, sia conforme all'art. 77 Cost, nell'attuale
interpretazione della giurisprudenza costituzionale sulla permanente rilevanza
dei presupposti di necessità ed urgenza. Il dubbio si fonda sulla circostanza
che con l'art. 17 si introduce un'autentica riforma di sistema, la cui
straordinaria necessità ed urgenza di attuazione è molto difficile da dimostrare.
Nella specie, non sembra infatti individuabile "la preesistenza di una
situazione di fatto comportante la necessità e l'urgenza di provvedere, tramite
l'utilizzazione di uno strumento eccezionale, quale il decreto legge", la
cui mancanza, secondo la giurisprudenza costituzionale, costituisce appunto un
vizio di costituzionalità del decreto (Corte costituzionale, sentenza
n. 93 del 2011); vizio che, una volta intervenuta la legge di conversione,
comporta un'illegittimità in procedendo della relativa legge (sentenza
n. 128 del 2008). Si deve peraltro trattare, per essere rilevante, di un
difetto dei presupposti "evidente" (sentenza n.171 del 2007).
Ma come non
ritenere "evidente" tale difetto, considerando che il decreto
introduce addirittura un'autentica riforma di sistema in materia di rilevanza
costituzionale e che il relativo procedimento, che prevede una serie di
interventi di determinati soggetti, si dovrebbe concludere con "un atto
legislativo di iniziativa governativa" che è solo futuro ed eventuale nonché
da adottare, in via di principio, una volta esplicati tutti gli adempimenti
dell'articolato procedimento previsto? Al riguardo si deve osservare che le
numerose e in apparenza serrate scadenze temporali previste nel procedimento in
esame devono in realtà qualificarsi come termini meramente
"sollecitatori", non essendo stabilita alcuna specifica decadenza per
la loro inosservanza. Di conseguenza, non si può logicamente prevedere sin da
oggi la durata effettiva di questo procedimento di riordino.
Ma c'è di
più. Il decreto legge n. 95 riguarda, come si evince chiaramente dal titolo:
"Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza
dei servizi ai cittadini, nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle
imprese del settore bancario", ambiti materiali diversi ed eterogenei, la
cui ratto unitaria di intervenire con urgenza è molto difficile da
individuare, poiché si incide su una disciplina "a regime" di settori
di materie, per i quali non può valere il medesimo presupposto della necessità
temporale. Si palesa infatti di difficile valutazione oggettiva il fattore
unificante apparentemente invocato dal Governo, costituito dall'esigenza, per
propria natura estremamente generica ed omnicomprensiva, di riduzione della
spesa. Nella specie, invece, si può dire che risulta, secondo la giurisprudenza
costituzionale, "in contrasto con l'art. 77 Cost. la commistione e la
sovrapposizione, nello stesso atto normativo, di soggetti e finalità
eterogenee, in ragione di presupposti, a loro volta, eterogenei" (Corte
cost. n. 22 del 2012).
Alla
necessaria omogeneità del decreto deve inoltre corrispondere anche l'omogeneità
della legge di conversione, che, nella specie, è tutta da provare. Tanto più
che nella legge di conversione sono stati introdotti frequenti e corposi
emendamenti, che a loro volta, però, debbono essere "non del tutto
estranei all'oggetto ed alle finalità del testo originario del decreto",
per non violare l'art. 77, secondo comma, Cost. In definitiva, sussistono forti
perplessità, sul piano dei vizi formali di legittimità costituzionale, che la
disciplina de qua possa costituire oggetto di un decreto-legge.
4. — Venendo
al merito, la disciplina legislativa in esame si deve confrontare con l'art.
133, comma primo, Costituzione, che da un lato attribuisce al legislatore
statale la potestà di revisione delle circoscrizioni provinciali, ma,
dall'altro lato, impone una serie di adempimenti rivolti a consentire la
partecipazione al relativo procedimento delle comunità territoriali interessate:
la legge di modifica delle circoscrizioni, infatti, può essere adottata, ai
sensi del predetto art. 133, soltanto "su iniziativa dei comuni" e
dopo avere "sentita la regione".
Questo
espresso intento del Costituente di condizionare la legislazione statale alla
partecipazione delle comunità locali interessate produce l'effetto - ben
conosciuto nella dottrina del diritto costituzionale - di istituire per la
modifica della circoscrizioni provinciali un tipo di potestà legislativa
statale diversa rispetto a quella ordinaria. Essa viene appunto definita
"rinforzata" perché presenta alcuni "adempimenti procedurali
destinati a "rinforzare" il procedimento (Corte costituzionale,
sentenza n. 374 del 1994), e cioè l'obbligatorietà di alcune necessarie
fasi ulteriori rispetto a quelle ordinariamente previste, la cui caratteristica
saliente sta nel fatto di essere imposte dalla stessa Costituzione.
In materia
di mutamento delle circoscrizioni provinciali, il ricorso ad una legge
"rinforzata" non costituisce del resto una singolarità, bensì
rappresenta l'applicazione coerente di una scelta adottata dal testo
costituzionale per tutti i casi di variazione delle circoscrizioni degli enti
territoriali riconosciuti. E difatti, tanto per quanto concerne le Regioni,
quanto per quanto concerne le province ed i comuni, l'istituzione di un nuovo
ente, o la fusione di enti precedenti, ovvero la modifica dei loro confini e
delle loro circoscrizioni è destinata ad avvenire, secondo gli articoli 132 e
133 della Costituzione, con legge, a seconda dei casi, statale ovvero
regionale, ma sempre sulla base della partecipazione, pur se in forme diverse,
delle popolazioni interessate, secondo procedure che finiscono appunto per
determinare il carattere "rinforzato" di queste leggi, che, in difetto
di tale partecipazione, risultano contrarie alla Costituzione.
Questa
costante scelta costituzionale non è affatto casuale, ma costituisce una
soluzione di necessaria applicazione del principio autonomistico e della
connessa garanzia riconosciuta agli enti territoriali.
Si tratta
dunque, come sottolinea la Corte costituzionale, di un "principio di
portata generale che trova puntuale espressione negli art. 132 e 133 della
Costituzione, ma che è comunque desumibile dal contesto dell'intero titolo V
della parte seconda della Costituzione", costituendo "uno dei
principi di portata generale che connotano il significato pluralistico della
nostra democrazia" (sentenza n. 543 del 1989). E difatti la
garanzia dell'autonomia riconosciuta alle comunità territoriali sarebbe del
tutto vanificata se l'ente maggiore e, in particolare, lo Stato, potesse
disporre a suo piacimento dell'identità degli enti relativi, sopprimendoli,
unificandoli o attribuendo parti della popolazione residente ora all'uno ora
all'altro di essi.
Non a caso
l'art. 114 stabilisce che "la Repubblica è costituita", come dallo
Stato, così allo stesso modo "dai Comuni, dalle Province, dalle Città
metropolitane, dalle Regioni". Il Costituente, dunque, pur se non ha
direttamente determinato i confini dei diversi enti locali, ne ha però, per
così dire, recepito le relative circoscrizioni come esistenti al momento della
Assemblea Costituente, ed ha esteso la sua garanzia anche al territorio delle
Regioni, delle Province e dei Comuni. Questo ne è risultato, per così dire,
"cristallizzato", in quanto la Costituzione, istituendo, come ha
stabilito la Corte, una specifica tutela al "diritto alla integrità
territoriale" (sentenza n. 38 del 1969), ha sottratto il territorio
dell'ente all'esclusiva disponibilità del legislatore, ed anche se tale
garanzia non sempre è stata estesa, del tutto ragionevolmente, sino alla
previsione di una revisione costituzionale per la modifica dei confini,
tuttavia è stata in ogni caso fatta consistere, in modo non equivocabile, nella
necessaria partecipazione formale delle popolazioni e delle comunità locali
interessate al relativo procedimento.
Ne deriva
quindi che, secondo la Costituzione, la revisione delle circoscrizioni degli
enti territoriali costituisce il frutto necessario di un contemperamento fra
interesse della generalità ed interessi locali, e se la tutela del primo è
appunto assicurata dalla previsione del necessario intervento dell'atto
legislativo per la modifica, i secondi risultano salvaguardati attraverso
l'introduzione formale nel procedimento della partecipazione delle popolazione
e degli enti locali interessati, cosicché il difetto di una tale
partecipazione, nelle forme previste, produce necessariamente l'esito della
invalidità della legge di modifica delle circoscrizioni.
5. — II
carattere indefettibile della partecipazione delle comunità locali al
procedimento risulta confermato da un orientamento risalente e tuttavia
consolidato della giurisprudenza costituzionale nell'applicazione dell'art. 133
della Costituzione. Con riferimento alla modifica delle circoscrizioni comunali
– che nella prassi si è verificata con frequenza maggiore - la Corte ha infatti
stabilito che il difetto di una tale partecipazione "non viene ad essere
solo una mera irregolarità ... ma, principalmente, ha determinato una grave
omissione, che ha impedito la valutazione della volontà delle popolazioni
interessate alla variazione territoriale, cui non è stato permesso di
esprimersi" (sentenza n. 36 del 2011), e ciò perché l'art. 133
"non consente in nessun caso di surrogare con altri elementi
procedimentali" quelli ivi previsti (sentenza n. 214 del 2010). "L'obbligo
di sentire le popolazioni interessate - infatti, secondo la Corte - è
espressione di un generale principio ricevuto dalla tradizione storica che
vuole la partecipazione delle comunità locali a talune fondamentali decisioni
che le riguardano" (sentenza n. 279 del 1994).
Non sembra
dubitabile che questi principi - affermati a proposito delle circoscrizioni
comunali - debbano valere anche per l'ipotesi della revisione dei confini
provinciali. E' noto infatti che fu una scelta deliberata e consapevole
dell'Assemblea costituente quella di assumere le province come enti
territoriali anch'essi espressione, alla pari dei comuni e delle regioni, del
principio autonomistico, secondo una linea di superamento della tradizione
liberale che vedeva invece nella provincia un ente di mero decentramento
amministrativo di funzioni imputate allo Stato.
Nella sua
originaria formulazione l’art. 114 della Costituzione - stabilendo che la
Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni - attestava l'assunzione
deliberata di questa scelta da parte del Costituente, e il punto, non a caso,
venne sottolineato in Assemblea proprio all'atto di votare gli articoli del
progetto relativi alla modifica delle circoscrizioni provinciali, posto che la
relativa procedura di modifica non poteva non risultare strettamente
consequenziale alla nuova concezione della Provincia come ente autonomo (Assemblea
Costituente, seduta del 17 luglio 1947, pag. 5878). Ma questa scelta in
senso autonomistico risulta poi, come noto, ancor più accentuata dalla riforma
del Titolo V della Costituzione, che include ora l'ente Provincia, nell'art.
114 riformato, fra gli enti autonomi dei quali è costituita la Repubblica,
ciascuno dei quali "con propri statuti, poteri e funzioni secondo i
principi fissati dalla Costituzione". L'analisi degli articoli 118 e 119
della Costituzione conferma questa ricostruzione, sulla base del riconoscimento
anche a favore delle Province della titolarità di funzioni amministrative
proprie, e della relativa autonomia finanziaria.
L'insieme di
queste disposizioni conferma l'inclusione a pieno titolo della Province fra gli
enti protetti dal principio autonomistico sancito dall'art. 5 della
Costituzione, con la conseguenza che la garanzia dell'integrità territoriale
assicurata dall'art. 133 non può non valere per esse con la medesima intensità
con cui essa vale, per costante giurisprudenza costituzionale, per i Comuni.
A questa
ricostruzione di carattere sistematico e generale, deve poi aggiungersi il
rilevante argomento di carattere particolare che si desume con chiarezza ancora
una volta dai lavori preparatori, riguardo all'intento consapevole e deliberato
dei Costituenti di apprestare anche per le Province una specifica garanzia
relativa alla partecipazione delle comunità locali interessate alla modifica
delle loro circoscrizioni. E difatti mentre il testo del progetto prevedeva in
origine che "la istituzione di nuove Provincie è stabilita con leggi
della Repubblica, su iniziativa delle Regioni, sentite le popolazione
interessate", l'Assemblea costituente rovesciò la logica dell'impianto
e votò due distinti emendamenti, con i quali da un lato fu inserita
espressamente la previsione che lo stesso procedimento valesse anche per il
"cambiamento delle circoscrizioni provinciali" (seduta del 17
luglio 1947, pag. 5889); dall'altro lato si mutò l'iniziativa delle Regioni
in "iniziativa dei comuni interessati, sentita la Regione". L'emendamento
fu illustrato nel senso che esso fosse "più democratico" rispetto al
progetto, occorrendo che "l'iniziativa parta non dall'alto ma dal basso,
cioè sono le popolazioni interessate che devono dire se vogliono formare una
nuova Provincia, sono i Comuni interessati che devono chiedere al governo la
possibilità di formare una Provincia" (seduta del 17 luglio 1947, pag.
5891).
Quando
deliberò l'attuale testo dell'art. 133, comma primo, di conseguenza,
l'Assemblea costituente espresse la chiara decisione di condizionare non solo
l'istituzione di nuove province, ma anche la revisione delle circoscrizioni di
quelle esistenti alla volontà delle popolazioni interessate, che sarebbero
state rappresentate nel relativo procedimento attraverso la necessaria
iniziativa condizionante dei Comuni.
Vale dunque
certamente anche per le Province quello speciale interesse degli enti
territoriali garantiti in Costituzione, che la giurisprudenza definisce come
una vero e proprio "diritto all'integrità territoriale", con la
conseguenza che il difetto degli adempimenti procedurali previsti in via di
"rinforzamento" della procedura legislativa di modifica delle loro
circoscrizioni sarebbe destinato a costituire, per usare le parole della Corte,
non già una mera irregolarità ma una "grave omissione", non
surrogabile "in nessun caso ... con altri elementi procedimentali", e
suscettibile di determinare l'invalidità della legge (sentenza n. 214 del
2010).
L'esattezza
di questa conclusione sembra puntualmente confermata dalla disciplina recata
dall'art. 21 del d.Igs. n. 267 del 18 agosto 2000 (Testo Unico degli Enti
Locali - TUEL) in materia appunto di "Revisione delle circoscrizioni
provinciali", che, applicando e sviluppando la previsione costituzionale,
stabilisce che l'iniziativa dei Comuni "deve conseguire l'adesione
della maggioranza dei comuni dell'area interessata, che rappresentino,
comunque, la maggioranza della popolazione complessiva dell'area stessa, con
delibera assunta a maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati".
Come si
vede, il TUEL ha applicato puntualmente e sviluppato la previsione
costituzionale relativa alla "iniziativa dei Comuni", facendo
ragionevolmente coincidere tali Comuni con la maggioranza di quelli interessati
alla modifica della circoscrizione provinciale, purché rappresentanti la
maggioranza della popolazione residente nell'area relativa. Un'attività
iniziale di impulso delle amministrazioni comunali è quindi ritenuta
imprescindibile, tale impulso dovendo anzi provenire da un numero qualificato
dei Comuni dell'area.
Il rilievo
di questa disciplina risiede non tanto nella forza condizionante nei confronti
dei singoli atti legislativi - aventi pari grado formale - necessari per la
revisione delle circoscrizioni provinciali, quanto piuttosto nel fatto che essa
applica e sviluppa adeguatamente una norma costituzionale, idonea, questa sì,
ad operare con forza cogente nei confronti delle leggi di modifica dei
territori provinciali.
Ne consegue
che il confronto fra il procedimento del TUEL e quello del tutto diverso recato
dal decreto legge in esame vale proprio quale ulteriore strumento di verifica
per puntualizzare la distanza della regolazione introdotta dal Governo rispetto
al testo costituzionale.
6. — Nel
procedimento delineato dall'art. 17 in esame sembrano infatti mancare in radice
sia l'uno che l'altro degli adempimenti procedurali prescritti a questi fini
dall'art. 133, primo comma, Costituzione.
Fa difetto
in primo luogo "l'iniziativa dei Comuni", perché per quanto si
possano interpretare in senso restrittivo i requisiti dell'interesse dei Comuni
all'iniziativa, secondo il margine di discrezionalità che la giurisprudenza
riconosce al legislatore nella disciplina della procedura, sembra quanto meno
necessario che l'impulso al procedimento promani dalle amministrazioni comunali
interessate. Ma anche di questa versione "minima" dell'adempimento
procedurale non si trova traccia, posto che il decreto legge prevede invece una
"ipotesi di riordino" ad opera dei CAL, che sono organi, come
stabilisce la Costituzione all'art. 123, di "consultazione fra la Regione
e gli enti locali", e quindi incaricati di esprimere una sorta di voce
"unitaria" di tali enti, cosa ben diversa ed irriducibile rispetto
alla volontà dei singoli comuni interessati alla revisione del territorio della
Provincia cui appartengono.
E, del
resto, che l'ipotesi proveniente dal CAL non possa equivalere all'iniziativa
dei Comuni è chiarissimo anche all'estensore del decreto-legge, sia perché la
disposizione considera al tempo stesso le "iniziative comunali" come
meramente "eventuali" (art. 17, comma 3, secondo periodo), sia
perché essa stessa espressamente prevede che l'ipotesi di riordino da parte del
CAL possa anche fare difetto, senza che ciò possa esimere la Regione dal
presentare la proposta di riordino al Governo nei termini prescritti (art.
17, comma 3, primo periodo).
Un discorso
analogo deve farsi, in secondo luogo, anche per quanto riguarda l'interpello
regionale, perché se è vero che la proposta regionale vale a soddisfare il requisito,
la norma prevede parimenti che difetto della proposta regionale possa essere
surrogato dal Governo con il parere della Conferenza unificata (art. 17,
comma 4), che, di nuovo, è organo deputato ad esprimere la volontà
unitaria dei diversi enti rappresentati, cosa ben diversa dalla volontà della
Regione interessata alla singola ipotesi di riordino provinciale.
In
definitiva, mentre l'art. 133 impone al legislatore statale di operare
esclusivamente in posizione di recepimento di istanze provenienti dai territori
interessati, viceversa la disciplina del decreto-legge prevede una procedura
del tutto diversa, dominata dal Potere esecutivo, che da inizio alla procedura
con la delibera del Consiglio dei ministri e la conclude con "l'atto
legislativo di iniziativa governativa".
Occorre
quindi parlare più che di una difformità, di un vero e proprio capovolgimento
della logica di fondo della previsione costituzionale, che non sembra poter
trovare alcuna effettiva giustificazione, sotto nessun profilo.
7. — Neppure
il fatto che ci si trovi in presenza di una revisione generalizzata ed estesa
dei territori provinciali sembra poter operare da elemento giustificativo della
grave deviazione rispetto al procedimento costituzionale, se si considera che
la costante giurisprudenza costituzionale definisce come inderogabili i
requisiti di procedura dell'art. 133, e ciò tanto nelle ipotesi minimali di
"scarsa entità dell'intervento" (sentenza n. 279 del 1994), quanto
nelle ipotesi massimali di "complessivo riaggiustamento territoriale"
coinvolgente più enti locali, e che "potrebbero astrattamente realizzarsi
in modi diversi" (sentenza n. 94 del 2000).
Ciò si
spiega agevolmente considerando che il Costituente, come già detto, ha
adottato, nell'art. 133, il punto di vista proprio e particolare delle comunità
locali interessate, per le quali non ha alcun rilievo il fatto che la revisione
della circoscrizione di interesse si inserisca o meno in un disegno più ampio.
Del resto,
proprio il principio autonomistico sta ad imporre, semmai, che la garanzia
assicurata agli enti locali debba risultare a maggior ragione operante nei casi
in cui, come in quello di specie, il potere centrale coltivi un progetto di
radicale ridimensionamento dei loro territori. Nella logica del contemperamento
degli interessi perseguito dal testo costituzionale, è infatti del tutto
paradossale che l'interesse degli enti al proprio territorio debba rinunciare
ad ottenere evidenza procedimentale, proprio nelle ipotesi in cui esso subisce
il rischio della massima compressione, fino addirittura alla soppressione.
Le
distorsioni provocate da questa violazione del principio autonomistico
risultano del tutto evidenti nella disciplina del decreto legge. Basti pensare,
a questo proposito, al carattere del tutto unilaterale con cui il Governo ha,
in perfetta solitudine, deliberato un trattamento del tutto difforme e più
favorevole per alcune province in ragione della relativa posizione geografica,
come ad esempio avviene per quelle che sono sede del capoluogo di Regione, o
per quelle confinanti solo con province di regioni diverse da quella di
appartenenza nonché con province soppresse al fine dell'istituzione delle Città
Metropolitane (art. 17, comma 2, ult. periodo). Ancor prima che il carattere
più o meno plausibile della distinzione operata dalla norma, stride il
carattere assoluto e dominante della scelta legislativa in un ambito normativo,
quello appunto della revisione delle circoscrizioni territoriali, nel quale
invece è garantito costituzionalmente il concorso formalizzato di più volontà
diverse.
8. — A ciò
deve aggiungersi un argomento ulteriore.
Per
consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale, infatti, le
ipotesi di variazione del territorio degli enti locali appartengono alla
materia delle "circoscrizioni e dell'ordinamento degli enti locali"
regionali, provinciali o comunali che siano, essendo proprio sulla base di
questo ambito di competenza che la Corte costituzionale ha potuto riconoscere
alle Regioni speciali la potestà di istituzione di nuove Province (sentenza
n. 230 del 2001) ed alle Regioni ordinarie di disciplinare con proprie
leggi le forme di consultazione delle popolazioni interessate al mutamento
delle circoscrizioni comunali (sentenza n. 94 del 2000).
Se dunque si
ritiene che l’art. 133 della Costituzione non si possa applicare all'ipotesi di
riordino generalizzato delle Province prospettato dal Governo, si finisce
inevitabilmente per privare il legislatore statale di qualsiasi legittimazione
al relativo intervento. All'interno del catalogo di cui all'art. 117, comma
secondo, della Costituzione, non solo, difatti, non vi è alcuna voce
attributiva allo Stato della competenza in materia di "circoscrizioni e
ordinamento degli enti locali", ma anzi la lettera p) di tale
elenco, riferita appunto ai "Comuni, Province e Città metropolitane",
limita espressamente la competenza legislativa esclusiva dello Stato ai soli
oggetti della "legislazione elettorale, organi di governo e funzioni
fondamentali" degli enti predetti.
Anche per
questo motivo, si deve dunque concludere che l'art. 133, primo comma, della
Costituzione, costituisce il necessario parametro della legittimità
costituzionale dell'art. 17 del d. I. n. 95 del 2012, e del procedimento di
riordino delle circoscrizioni provinciali ivi previsto, il cui contenuto sembra
dunque palesarsi, o contrastante con l'art. 133, comma prima, oppure privo in
radice di qualsiasi titolo legittimante.
9. —
Rimangono peraltro da precisare - anche in adempimento dell'espressa
formulazione del quesito - i modi con i quali una tale situazione di verosimile
illegittimità costituzionale possa venir accertata nelle forme previste
dall'ordinamento.
Il
ragionamento deve partire dalla considerazione che il vizio di costituzionalità
dell'art. 17 del d.l. n. 95 del 2012, come convertito dalla relativa legge di
conversione, riguardando un atto con forza di legge, può essere accertato
soltanto dalla Corte costituzionale.
Ciò
significa, in primo luogo, che un'impugnativa diretta è consentita unicamente
alle Regioni, sotto il profilo che l'illegittima procedura previsto dal
decreto-legge menoma la competenza consultiva regionale e, ledendo le
prerogative degli enti territoriali in cui la Regione si articola, implica
necessariamente anche un'ulteriore lesione delle competenze regionali
costituzionalmente garantite. Un tale ricorso diretto deve essere proposto
dinnanzi alla Corte costituzionale, a pena di decadenza entro sessanta giorni
dalla pubblicazione (avvenuta il 14 agosto 2012) della legge 7 agosto 2012, di
conversione del decreto legge.
Ogni altro
soggetto, invece, deve invece assoggettarsi ad una procedura più articolata,
instaurando dinnanzi al giudice amministrativo - posto che si tratta di atti di
pubblici poteri - una controversia nella quale possa essere tale giudice a
sollevare la questione di costituzionalità.
A questi
fini è peraltro necessario individuare un atto scaturente dalla procedura in
esame, che possa dirsi, da un lato immediatamente lesivo della posizione del
soggetto interessato alla declaratoria di illegittimità, ma anche, dall'altro
lato, adottato in applicazione di quella parte della disciplina del
decreto-legge che appare in contrasto con la disciplina costituzionale.
Entrambi i presupposti sono infatti necessari perché la questione, anche se per
la via indiretta che si è descritta, possa essere portata dinnanzi alla Corte.
Nell'ambito
di questi atti, la delibera che il Consiglio dei Ministri ha adottato lo scorso
20 luglio al fine di stabilire i requisiti di dimensione e di popolazione che
le Province dovranno possedere all'esito dell'operazione di riordino, ha
certamente un contenuto immediatamente lesivo della posizione di tutte le
amministrazioni provinciali che non raggiungano i requisiti minimi prescritti,
ma tuttavia non sembra potersi definire con altrettanta certezza come emanata
in applicazione di quella parte del decreto legge che appare direttamente in
contrasto con l'art. 133 della Costituzione. E difatti bisogna ricordare, a
questo riguardo, che si tratta di far valere dinnanzi alla Corte costituzionale
un vizio attinente al procedimento di riordino, ed essenzialmente relativo alla
scelta deliberata dell'art. 17 in esame - in deroga al procedimento
costituzionalmente conforme previsto dal TEUEL - di non considerare
necessaria l'iniziativa comunale prescritta dall'art. 133 della Costituzione.
Appare
quindi logico non procedere all'impugnativa della predetta delibera, salva una
valutazione svolta precipuamente sul piano dell'opportunità politica, e sulla
base della condotta degli altri soggetti interessati.
Per questi
motivi - con tutte le cautele derivanti dal piano ipotetico del ragionamento -
sembra più appropriata la soluzione, ai fini che si perseguono, di procedere
piuttosto all'impugnativa della "ipotesi di riordino" adottata dal Consiglio
delle Autonomie locali, poiché non sembra dubbio che si tratti esattamente
del'atto che l'art. 17 prevede, per così dire, in sostituzione o in surroga
dell'iniziativa dei Comuni. Ne deriva un vizio di costituzionalità del relativo
provvedimento amministrativo, vizio che si deve definire come
"indiretto", in quanto discendente a sua volta dal vizio di
legittimità dell'art. 17, nella parte in cui prevede, in violazione dell'art.
133 della Costituzione, l'intervento nel procedimento del CAL in luogo di
quello dei Comuni interessati.
Un'analoga
impugnativa, in caso che il CAL non si pronunci, sembra poter essere rivolta
anche nei confronti della proposta regionale.
Anche in
questo caso sotto il profilo che tale proposta viene formulata - sempre in
applicazione dell'art. 17 - in difetto dell'iniziativa dei Comuni, che
costituisce infatti il presupposto, ai sensi dell'art. 133, per il parere della
Regione interessata.
In queste
ipotesi, il ricorso dovrebbe contenere un'istanza di sospensione dell'atto
impugnato, per consentire al giudice di sollevare immediatamente, in sede di
tutela cautelare, la questione di costituzionalità, anche prescindendo dalla
rigorosa verifica delle condizioni dell'azione, che invece è propria della sede
di merito.
In entrambi
i casi, comunque, non sembra che debba essere d'ostacolo all'ammissibilità il
fatto che si tratti di atti endoprocedimentali, in quanto, secondo la
giurisprudenza prevalente, ai fini dell'onere di immediata impugnazione conta
non tanto la collocazione dell'atto all'interno del procedimento, quanto il
fattore della lesione che esso arreca all'interesse sostanziale del ricorrente
{cfr. Consiglio di Stato, sentenza 31-12-2007, n. 6788), con la
conseguenza che, l'impugnazione dell'atto negativo, anche se endoprocedimentale,
costituisce comunque una facoltà per il destinatario (Cons. Stato, sez. IV,
20 giugno 2012, n. 3607).
Certo,
rimane vero il fatto che, nella procedura prevista dall'alt. 17 del
decreto-legge in esame, sia l'ipotesi di riordino da parte del CAL sia la
proposta regionale sono disciplinati come atti soltanto "eventuali",
posto che la loro mancata deliberazione non impedisce al Governo di esercitare
l'iniziativa per l'atto legislativo di riordino delle Province.
Nel caso in
cui tali ipotesi dovesse realizzarsi, la tutela giurisdizionale da preventiva
dovrebbe farsi necessariamente successiva, impugnandosi dinnanzi al giudice gli
atti esecutivi della disciplina legislativa contenente il riordino delle
Province.
10. — In
conclusione, deve dirsi che l'art. 17 del decreto-legge n. 95 del 2012, come
modificato dalla relativa legge di conversione, introduce un procedimento di
revisione delle circoscrizioni provinciali che appare a prima vista
suscettibile di sollevare gravi dubbi di costituzionalità sotto diversi
profili.
In primo
luogo, sotto il profilo formale, per quanto attiene alla fonte scelta dal
Governo, in quanto, secondo la più recente giurisprudenza costituzionale, lo
strumento del decreto legge non può venir utilizzato nei casi di evidente
mancanza dei presupposti della necessità e dell'urgenza del provvedere, e
neppure può venir utilizzato per far confluire in un unico atto una serie
eterogenea di provvedimenti non collegati realmente fra loro sotto il profilo
della materia trattata.
In secondo luogo,
sotto il profilo sostanziale delle relative disposizioni del decreto, perché
non sembra sussistere alcuna plausibile giustificazione per la palese
difformità fra il procedimento di riordino previsto dal decreto legge e la ben
diversa procedura di modifica dei territori delle Province stabilita in
Costituzione. In questo senso può essere opportuno ricordare ancora una volta
come ben più aderente al dettato costituzionale è il cennato procedimento
previsto dal TUEL.
Sembra
quindi possibile fin da ora ritenere, con riferimento alla tutela
giurisdizionale avverso gli atti del procedimento, che un eventuale giudizio
davanti alla Corte costituzionale, nei modi e nei tempi consentiti, abbia
significative possibilità di successo, anche se non si possono sottovalutare le
prevedibili implicazioni problematiche connesse alla generalizzata situazione
di emergenza che il Governo negli ultimi mesi regolarmente invoca a fondamento
della propria, ripetuta attività normativa in via di urgenza.
Nei termini
riferiti rendo dunque il richiesto parere.
Roma, 17 settembre 2012
Prof. Avv. Piero Alberto Capotosti
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