a cura di Sonia Zarino (architetto, urbanista)

venerdì 11 gennaio 2013

Parere sulla costituzionalità del DL 95/2012



Prof. Aw. Piero Alberto Capotosti

Emerito dì Diritto pubblico nella

Università "La Sapienza" di Roma


Roma, 17 settembre 2012



P A R E R E



Oggetto:Parere in ordine all'interpretazione del quadro costituzionale applicabile al procedimento di riordino delle Province previsto dall'art. 17 del decreto-legge n. 95 del 6 luglio 2012, come convertito con I. 7 agosto 2012, n. 135.





1. — Mi è stato richiesto parere sui profili di legittimità costituzionale dell'art. 17 del d.l. 6 luglio 2012 n. 95, come convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, che introduce, anche a seguito delle modifiche apportate in sede di conversione, un procedimento articolato e del tutto innovativo ai fini, secondo quanto dichiara la rubrica attualmente vigente della disposizione, del "riordino" delle province.

Secondo una scansione delle diverse fasi connotata da termini apparentemente serrati, la norma, in particolare, prevede che

"entro dieci giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il Consiglio dei ministri determina, con apposita deliberazione ... il riordino delle province sulla base di requisiti minimi, da individuarsi nella dimensione territoriale e nella popolazione residente in ciascuna provincia" (art. 17, comma 2). La delibera è stata adottata dal Consiglio dei Ministri il 20 luglio ed è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 24 luglio 2012.

"Entro settanta giorni da tale pubblicazione - prosegue la disposizione - // Consiglio delle autonomie locali di ogni regione a statuto ordinario o, in mancanza, l'organo regionale di raccordo tra regioni ed enti locali... approva una ipotesi di riordino relativa alle province ubicate nel territorio della rispettiva regione e la invia alla regione medesima entro il giorno successivo (art. 17, comma 3, primo periodo).

Considerando anche il caso che il Consiglio delle Autonomie Locali (CAI) non adempia alla formulazione dell'ipotesi di riordino, la norma prevede poi che

"Entro venti giorni dalla data di trasmissione dell'ipotesi di riordino o, comunque, anche in mancanza della trasmissione, trascorsi novantadue giorni dalla citata data di pubblicazione ciascuna regione trasmette al Governo una proposta di riordino delle province ubicate nel proprio territorio" (art. 17, comma 3, secondo periodo).

Infine, essa dispone che

"entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, con atto legislativo di iniziativa governativa le province sono riordinate sulla base delle proposte regionali di cui al comma 3" (art. 17, comma 4). Anche qui il legislatore considera l'ipotesi che le proposte regionali non pervengano nel termine, e dispone che il provvedimento legislativo di riordino venga assunto, nel caso, "previo parere" della Conferenza unificata Stato-Regioni.



2 . — Occorre subito osservare che, dettando una tale disciplina, l'art. 17 in esame si pone in linea di continuità con le previsioni contenute nell'art. 23 del d.l. 6.12.2011 (convertito nella legge n. 214 del 2011) e con l'opera di "svuotamento" degli organi e delle funzioni provinciali che il predetto art. 23 ha effettato, anticipando una sostanziale "soppressione" delle Province in vista di quella formale, da attuare con una futura legge costituzionale. Si trattava di un disegno legislativo che, secondo l'opinione di molti costituzionalisti, presentava forti dubbi di costituzionalità soprattutto in riferimento al fatto che le Province non sono soltanto enti territoriali autonomi, ma, ai sensi dell'art. 114 Cost., elementi costitutivi della Repubblica.

D'altra parte, che la disciplina recata dall'art. 17 cit. sia anch'essa finalizzata alla soppressione di Province è rivelato dalla stessa rubrica dell'articolo, la quale nel testo originario del decreto legge così s'intitolava:"Soppressione e razionalizzazione delle province e loro funzioni". La sostituzione del termine "soppressione" con "riordino", effettuato nella legge di conversione, in realtà è solo un aspetto formale, giacché, anche dopo le modifiche della legge di conversione, continua egualmente a porsi, come conseguenza del "riordino", un problema di soppressione di molte delle Province italiane, poiché la logica del processo di rivisitazione dei territori provinciali si ripropone chiaramente di giungere ad una drastica riduzione del numero delle Province, alimentando così rilevanti perplessità di ordine costituzionalistico sull'art. 17 medesimo.



3. — In questa ottica, in primo luogo è da chiedersi se il ricorso alla decretazione di urgenza, nel caso in esame, sia conforme all'art. 77 Cost, nell'attuale interpretazione della giurisprudenza costituzionale sulla permanente rilevanza dei presupposti di necessità ed urgenza. Il dubbio si fonda sulla circostanza che con l'art. 17 si introduce un'autentica riforma di sistema, la cui straordinaria necessità ed urgenza di attuazione è molto difficile da dimostrare. Nella specie, non sembra infatti individuabile "la preesistenza di una situazione di fatto comportante la necessità e l'urgenza di provvedere, tramite l'utilizzazione di uno strumento eccezionale, quale il decreto legge", la cui mancanza, secondo la giurisprudenza costituzionale, costituisce appunto un vizio di costituzionalità del decreto (Corte costituzionale, sentenza n. 93 del 2011); vizio che, una volta intervenuta la legge di conversione, comporta un'illegittimità in procedendo della relativa legge (sentenza n. 128 del 2008). Si deve peraltro trattare, per essere rilevante, di un difetto dei presupposti "evidente" (sentenza n.171 del 2007).

Ma come non ritenere "evidente" tale difetto, considerando che il decreto introduce addirittura un'autentica riforma di sistema in materia di rilevanza costituzionale e che il relativo procedimento, che prevede una serie di interventi di determinati soggetti, si dovrebbe concludere con "un atto legislativo di iniziativa governativa" che è solo futuro ed eventuale nonché da adottare, in via di principio, una volta esplicati tutti gli adempimenti dell'articolato procedimento previsto? Al riguardo si deve osservare che le numerose e in apparenza serrate scadenze temporali previste nel procedimento in esame devono in realtà qualificarsi come termini meramente "sollecitatori", non essendo stabilita alcuna specifica decadenza per la loro inosservanza. Di conseguenza, non si può logicamente prevedere sin da oggi la durata effettiva di questo procedimento di riordino.

Ma c'è di più. Il decreto legge n. 95 riguarda, come si evince chiaramente dal titolo: "Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini, nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario", ambiti materiali diversi ed eterogenei, la cui ratto unitaria di intervenire con urgenza è molto difficile da individuare, poiché si incide su una disciplina "a regime" di settori di materie, per i quali non può valere il medesimo presupposto della necessità temporale. Si palesa infatti di difficile valutazione oggettiva il fattore unificante apparentemente invocato dal Governo, costituito dall'esigenza, per propria natura estremamente generica ed omnicomprensiva, di riduzione della spesa. Nella specie, invece, si può dire che risulta, secondo la giurisprudenza costituzionale, "in contrasto con l'art. 77 Cost. la commistione e la sovrapposizione, nello stesso atto normativo, di soggetti e finalità eterogenee, in ragione di presupposti, a loro volta, eterogenei" (Corte cost. n. 22 del 2012).

Alla necessaria omogeneità del decreto deve inoltre corrispondere anche l'omogeneità della legge di conversione, che, nella specie, è tutta da provare. Tanto più che nella legge di conversione sono stati introdotti frequenti e corposi emendamenti, che a loro volta, però, debbono essere "non del tutto estranei all'oggetto ed alle finalità del testo originario del decreto", per non violare l'art. 77, secondo comma, Cost. In definitiva, sussistono forti perplessità, sul piano dei vizi formali di legittimità costituzionale, che la disciplina de qua possa costituire oggetto di un decreto-legge.



4. — Venendo al merito, la disciplina legislativa in esame si deve confrontare con l'art. 133, comma primo, Costituzione, che da un lato attribuisce al legislatore statale la potestà di revisione delle circoscrizioni provinciali, ma, dall'altro lato, impone una serie di adempimenti rivolti a consentire la partecipazione al relativo procedimento delle comunità territoriali interessate: la legge di modifica delle circoscrizioni, infatti, può essere adottata, ai sensi del predetto art. 133, soltanto "su iniziativa dei comuni" e dopo avere "sentita la regione".

Questo espresso intento del Costituente di condizionare la legislazione statale alla partecipazione delle comunità locali interessate produce l'effetto - ben conosciuto nella dottrina del diritto costituzionale - di istituire per la modifica della circoscrizioni provinciali un tipo di potestà legislativa statale diversa rispetto a quella ordinaria. Essa viene appunto definita "rinforzata" perché presenta alcuni "adempimenti procedurali destinati a "rinforzare" il procedimento (Corte costituzionale, sentenza n. 374 del 1994), e cioè l'obbligatorietà di alcune necessarie fasi ulteriori rispetto a quelle ordinariamente previste, la cui caratteristica saliente sta nel fatto di essere imposte dalla stessa Costituzione.

In materia di mutamento delle circoscrizioni provinciali, il ricorso ad una legge "rinforzata" non costituisce del resto una singolarità, bensì rappresenta l'applicazione coerente di una scelta adottata dal testo costituzionale per tutti i casi di variazione delle circoscrizioni degli enti territoriali riconosciuti. E difatti, tanto per quanto concerne le Regioni, quanto per quanto concerne le province ed i comuni, l'istituzione di un nuovo ente, o la fusione di enti precedenti, ovvero la modifica dei loro confini e delle loro circoscrizioni è destinata ad avvenire, secondo gli articoli 132 e 133 della Costituzione, con legge, a seconda dei casi, statale ovvero regionale, ma sempre sulla base della partecipazione, pur se in forme diverse, delle popolazioni interessate, secondo procedure che finiscono appunto per determinare il carattere "rinforzato" di queste leggi, che, in difetto di tale partecipazione, risultano contrarie alla Costituzione.

Questa costante scelta costituzionale non è affatto casuale, ma costituisce una soluzione di necessaria applicazione del principio autonomistico e della connessa garanzia riconosciuta agli enti territoriali.

Si tratta dunque, come sottolinea la Corte costituzionale, di un "principio di portata generale che trova puntuale espressione negli art. 132 e 133 della Costituzione, ma che è comunque desumibile dal contesto dell'intero titolo V della parte seconda della Costituzione", costituendo "uno dei principi di portata generale che connotano il significato pluralistico della nostra democrazia" (sentenza n. 543 del 1989). E difatti la garanzia dell'autonomia riconosciuta alle comunità territoriali sarebbe del tutto vanificata se l'ente maggiore e, in particolare, lo Stato, potesse disporre a suo piacimento dell'identità degli enti relativi, sopprimendoli, unificandoli o attribuendo parti della popolazione residente ora all'uno ora all'altro di essi.

Non a caso l'art. 114 stabilisce che "la Repubblica è costituita", come dallo Stato, così allo stesso modo "dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni". Il Costituente, dunque, pur se non ha direttamente determinato i confini dei diversi enti locali, ne ha però, per così dire, recepito le relative circoscrizioni come esistenti al momento della Assemblea Costituente, ed ha esteso la sua garanzia anche al territorio delle Regioni, delle Province e dei Comuni. Questo ne è risultato, per così dire, "cristallizzato", in quanto la Costituzione, istituendo, come ha stabilito la Corte, una specifica tutela al "diritto alla integrità territoriale" (sentenza n. 38 del 1969), ha sottratto il territorio dell'ente all'esclusiva disponibilità del legislatore, ed anche se tale garanzia non sempre è stata estesa, del tutto ragionevolmente, sino alla previsione di una revisione costituzionale per la modifica dei confini, tuttavia è stata in ogni caso fatta consistere, in modo non equivocabile, nella necessaria partecipazione formale delle popolazioni e delle comunità locali interessate al relativo procedimento.

Ne deriva quindi che, secondo la Costituzione, la revisione delle circoscrizioni degli enti territoriali costituisce il frutto necessario di un contemperamento fra interesse della generalità ed interessi locali, e se la tutela del primo è appunto assicurata dalla previsione del necessario intervento dell'atto legislativo per la modifica, i secondi risultano salvaguardati attraverso l'introduzione formale nel procedimento della partecipazione delle popolazione e degli enti locali interessati, cosicché il difetto di una tale partecipazione, nelle forme previste, produce necessariamente l'esito della invalidità della legge di modifica delle circoscrizioni.



5. — II carattere indefettibile della partecipazione delle comunità locali al procedimento risulta confermato da un orientamento risalente e tuttavia consolidato della giurisprudenza costituzionale nell'applicazione dell'art. 133 della Costituzione. Con riferimento alla modifica delle circoscrizioni comunali – che nella prassi si è verificata con frequenza maggiore - la Corte ha infatti stabilito che il difetto di una tale partecipazione "non viene ad essere solo una mera irregolarità ... ma, principalmente, ha determinato una grave omissione, che ha impedito la valutazione della volontà delle popolazioni interessate alla variazione territoriale, cui non è stato permesso di esprimersi" (sentenza n. 36 del 2011), e ciò perché l'art. 133 "non consente in nessun caso di surrogare con altri elementi procedimentali" quelli ivi previsti (sentenza n. 214 del 2010). "L'obbligo di sentire le popolazioni interessate - infatti, secondo la Corte - è espressione di un generale principio ricevuto dalla tradizione storica che vuole la partecipazione delle comunità locali a talune fondamentali decisioni che le riguardano" (sentenza n. 279 del 1994).

Non sembra dubitabile che questi principi - affermati a proposito delle circoscrizioni comunali - debbano valere anche per l'ipotesi della revisione dei confini provinciali. E' noto infatti che fu una scelta deliberata e consapevole dell'Assemblea costituente quella di assumere le province come enti territoriali anch'essi espressione, alla pari dei comuni e delle regioni, del principio autonomistico, secondo una linea di superamento della tradizione liberale che vedeva invece nella provincia un ente di mero decentramento amministrativo di funzioni imputate allo Stato.

Nella sua originaria formulazione l’art. 114 della Costituzione - stabilendo che la Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni - attestava l'assunzione deliberata di questa scelta da parte del Costituente, e il punto, non a caso, venne sottolineato in Assemblea proprio all'atto di votare gli articoli del progetto relativi alla modifica delle circoscrizioni provinciali, posto che la relativa procedura di modifica non poteva non risultare strettamente consequenziale alla nuova concezione della Provincia come ente autonomo (Assemblea Costituente, seduta del 17 luglio 1947, pag. 5878). Ma questa scelta in senso autonomistico risulta poi, come noto, ancor più accentuata dalla riforma del Titolo V della Costituzione, che include ora l'ente Provincia, nell'art. 114 riformato, fra gli enti autonomi dei quali è costituita la Repubblica, ciascuno dei quali "con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione". L'analisi degli articoli 118 e 119 della Costituzione conferma questa ricostruzione, sulla base del riconoscimento anche a favore delle Province della titolarità di funzioni amministrative proprie, e della relativa autonomia finanziaria.

L'insieme di queste disposizioni conferma l'inclusione a pieno titolo della Province fra gli enti protetti dal principio autonomistico sancito dall'art. 5 della Costituzione, con la conseguenza che la garanzia dell'integrità territoriale assicurata dall'art. 133 non può non valere per esse con la medesima intensità con cui essa vale, per costante giurisprudenza costituzionale, per i Comuni.

A questa ricostruzione di carattere sistematico e generale, deve poi aggiungersi il rilevante argomento di carattere particolare che si desume con chiarezza ancora una volta dai lavori preparatori, riguardo all'intento consapevole e deliberato dei Costituenti di apprestare anche per le Province una specifica garanzia relativa alla partecipazione delle comunità locali interessate alla modifica delle loro circoscrizioni. E difatti mentre il testo del progetto prevedeva in origine che "la istituzione di nuove Provincie è stabilita con leggi della Repubblica, su iniziativa delle Regioni, sentite le popolazione interessate", l'Assemblea costituente rovesciò la logica dell'impianto e votò due distinti emendamenti, con i quali da un lato fu inserita espressamente la previsione che lo stesso procedimento valesse anche per il "cambiamento delle circoscrizioni provinciali" (seduta del 17 luglio 1947, pag. 5889); dall'altro lato si mutò l'iniziativa delle Regioni in "iniziativa dei comuni interessati, sentita la Regione". L'emendamento fu illustrato nel senso che esso fosse "più democratico" rispetto al progetto, occorrendo che "l'iniziativa parta non dall'alto ma dal basso, cioè sono le popolazioni interessate che devono dire se vogliono formare una nuova Provincia, sono i Comuni interessati che devono chiedere al governo la possibilità di formare una Provincia" (seduta del 17 luglio 1947, pag. 5891).

Quando deliberò l'attuale testo dell'art. 133, comma primo, di conseguenza, l'Assemblea costituente espresse la chiara decisione di condizionare non solo l'istituzione di nuove province, ma anche la revisione delle circoscrizioni di quelle esistenti alla volontà delle popolazioni interessate, che sarebbero state rappresentate nel relativo procedimento attraverso la necessaria iniziativa condizionante dei Comuni.

Vale dunque certamente anche per le Province quello speciale interesse degli enti territoriali garantiti in Costituzione, che la giurisprudenza definisce come una vero e proprio "diritto all'integrità territoriale", con la conseguenza che il difetto degli adempimenti procedurali previsti in via di "rinforzamento" della procedura legislativa di modifica delle loro circoscrizioni sarebbe destinato a costituire, per usare le parole della Corte, non già una mera irregolarità ma una "grave omissione", non surrogabile "in nessun caso ... con altri elementi procedimentali", e suscettibile di determinare l'invalidità della legge (sentenza n. 214 del 2010).

L'esattezza di questa conclusione sembra puntualmente confermata dalla disciplina recata dall'art. 21 del d.Igs. n. 267 del 18 agosto 2000 (Testo Unico degli Enti Locali - TUEL) in materia appunto di "Revisione delle circoscrizioni provinciali", che, applicando e sviluppando la previsione costituzionale, stabilisce che l'iniziativa dei Comuni "deve conseguire l'adesione della maggioranza dei comuni dell'area interessata, che rappresentino, comunque, la maggioranza della popolazione complessiva dell'area stessa, con delibera assunta a maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati".

Come si vede, il TUEL ha applicato puntualmente e sviluppato la previsione costituzionale relativa alla "iniziativa dei Comuni", facendo ragionevolmente coincidere tali Comuni con la maggioranza di quelli interessati alla modifica della circoscrizione provinciale, purché rappresentanti la maggioranza della popolazione residente nell'area relativa. Un'attività iniziale di impulso delle amministrazioni comunali è quindi ritenuta imprescindibile, tale impulso dovendo anzi provenire da un numero qualificato dei Comuni dell'area.

Il rilievo di questa disciplina risiede non tanto nella forza condizionante nei confronti dei singoli atti legislativi - aventi pari grado formale - necessari per la revisione delle circoscrizioni provinciali, quanto piuttosto nel fatto che essa applica e sviluppa adeguatamente una norma costituzionale, idonea, questa sì, ad operare con forza cogente nei confronti delle leggi di modifica dei territori provinciali.

Ne consegue che il confronto fra il procedimento del TUEL e quello del tutto diverso recato dal decreto legge in esame vale proprio quale ulteriore strumento di verifica per puntualizzare la distanza della regolazione introdotta dal Governo rispetto al testo costituzionale.

6. — Nel procedimento delineato dall'art. 17 in esame sembrano infatti mancare in radice sia l'uno che l'altro degli adempimenti procedurali prescritti a questi fini dall'art. 133, primo comma, Costituzione.

Fa difetto in primo luogo "l'iniziativa dei Comuni", perché per quanto si possano interpretare in senso restrittivo i requisiti dell'interesse dei Comuni all'iniziativa, secondo il margine di discrezionalità che la giurisprudenza riconosce al legislatore nella disciplina della procedura, sembra quanto meno necessario che l'impulso al procedimento promani dalle amministrazioni comunali interessate. Ma anche di questa versione "minima" dell'adempimento procedurale non si trova traccia, posto che il decreto legge prevede invece una "ipotesi di riordino" ad opera dei CAL, che sono organi, come stabilisce la Costituzione all'art. 123, di "consultazione fra la Regione e gli enti locali", e quindi incaricati di esprimere una sorta di voce "unitaria" di tali enti, cosa ben diversa ed irriducibile rispetto alla volontà dei singoli comuni interessati alla revisione del territorio della Provincia cui appartengono.

E, del resto, che l'ipotesi proveniente dal CAL non possa equivalere all'iniziativa dei Comuni è chiarissimo anche all'estensore del decreto-legge, sia perché la disposizione considera al tempo stesso le "iniziative comunali" come meramente "eventuali" (art. 17, comma 3, secondo periodo), sia perché essa stessa espressamente prevede che l'ipotesi di riordino da parte del CAL possa anche fare difetto, senza che ciò possa esimere la Regione dal presentare la proposta di riordino al Governo nei termini prescritti (art. 17, comma 3, primo periodo).

Un discorso analogo deve farsi, in secondo luogo, anche per quanto riguarda l'interpello regionale, perché se è vero che la proposta regionale vale a soddisfare il requisito, la norma prevede parimenti che difetto della proposta regionale possa essere surrogato dal Governo con il parere della Conferenza unificata (art. 17, comma 4), che, di nuovo, è organo deputato ad esprimere la volontà unitaria dei diversi enti rappresentati, cosa ben diversa dalla volontà della Regione interessata alla singola ipotesi di riordino provinciale.

In definitiva, mentre l'art. 133 impone al legislatore statale di operare esclusivamente in posizione di recepimento di istanze provenienti dai territori interessati, viceversa la disciplina del decreto-legge prevede una procedura del tutto diversa, dominata dal Potere esecutivo, che da inizio alla procedura con la delibera del Consiglio dei ministri e la conclude con "l'atto legislativo di iniziativa governativa".

Occorre quindi parlare più che di una difformità, di un vero e proprio capovolgimento della logica di fondo della previsione costituzionale, che non sembra poter trovare alcuna effettiva giustificazione, sotto nessun profilo.



7. — Neppure il fatto che ci si trovi in presenza di una revisione generalizzata ed estesa dei territori provinciali sembra poter operare da elemento giustificativo della grave deviazione rispetto al procedimento costituzionale, se si considera che la costante giurisprudenza costituzionale definisce come inderogabili i requisiti di procedura dell'art. 133, e ciò tanto nelle ipotesi minimali di "scarsa entità dell'intervento" (sentenza n. 279 del 1994), quanto nelle ipotesi massimali di "complessivo riaggiustamento territoriale" coinvolgente più enti locali, e che "potrebbero astrattamente realizzarsi in modi diversi" (sentenza n. 94 del 2000).

Ciò si spiega agevolmente considerando che il Costituente, come già detto, ha adottato, nell'art. 133, il punto di vista proprio e particolare delle comunità locali interessate, per le quali non ha alcun rilievo il fatto che la revisione della circoscrizione di interesse si inserisca o meno in un disegno più ampio.

Del resto, proprio il principio autonomistico sta ad imporre, semmai, che la garanzia assicurata agli enti locali debba risultare a maggior ragione operante nei casi in cui, come in quello di specie, il potere centrale coltivi un progetto di radicale ridimensionamento dei loro territori. Nella logica del contemperamento degli interessi perseguito dal testo costituzionale, è infatti del tutto paradossale che l'interesse degli enti al proprio territorio debba rinunciare ad ottenere evidenza procedimentale, proprio nelle ipotesi in cui esso subisce il rischio della massima compressione, fino addirittura alla soppressione.

Le distorsioni provocate da questa violazione del principio autonomistico risultano del tutto evidenti nella disciplina del decreto legge. Basti pensare, a questo proposito, al carattere del tutto unilaterale con cui il Governo ha, in perfetta solitudine, deliberato un trattamento del tutto difforme e più favorevole per alcune province in ragione della relativa posizione geografica, come ad esempio avviene per quelle che sono sede del capoluogo di Regione, o per quelle confinanti solo con province di regioni diverse da quella di appartenenza nonché con province soppresse al fine dell'istituzione delle Città Metropolitane (art. 17, comma 2, ult. periodo). Ancor prima che il carattere più o meno plausibile della distinzione operata dalla norma, stride il carattere assoluto e dominante della scelta legislativa in un ambito normativo, quello appunto della revisione delle circoscrizioni territoriali, nel quale invece è garantito costituzionalmente il concorso formalizzato di più volontà diverse.



8. — A ciò deve aggiungersi un argomento ulteriore.

Per consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale, infatti, le ipotesi di variazione del territorio degli enti locali appartengono alla materia delle "circoscrizioni e dell'ordinamento degli enti locali" regionali, provinciali o comunali che siano, essendo proprio sulla base di questo ambito di competenza che la Corte costituzionale ha potuto riconoscere alle Regioni speciali la potestà di istituzione di nuove Province (sentenza n. 230 del 2001) ed alle Regioni ordinarie di disciplinare con proprie leggi le forme di consultazione delle popolazioni interessate al mutamento delle circoscrizioni comunali (sentenza n. 94 del 2000).

Se dunque si ritiene che l’art. 133 della Costituzione non si possa applicare all'ipotesi di riordino generalizzato delle Province prospettato dal Governo, si finisce inevitabilmente per privare il legislatore statale di qualsiasi legittimazione al relativo intervento. All'interno del catalogo di cui all'art. 117, comma secondo, della Costituzione, non solo, difatti, non vi è alcuna voce attributiva allo Stato della competenza in materia di "circoscrizioni e ordinamento degli enti locali", ma anzi la lettera p) di tale elenco, riferita appunto ai "Comuni, Province e Città metropolitane", limita espressamente la competenza legislativa esclusiva dello Stato ai soli oggetti della "legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali" degli enti predetti.

Anche per questo motivo, si deve dunque concludere che l'art. 133, primo comma, della Costituzione, costituisce il necessario parametro della legittimità costituzionale dell'art. 17 del d. I. n. 95 del 2012, e del procedimento di riordino delle circoscrizioni provinciali ivi previsto, il cui contenuto sembra dunque palesarsi, o contrastante con l'art. 133, comma prima, oppure privo in radice di qualsiasi titolo legittimante.



9. — Rimangono peraltro da precisare - anche in adempimento dell'espressa formulazione del quesito - i modi con i quali una tale situazione di verosimile illegittimità costituzionale possa venir accertata nelle forme previste dall'ordinamento.

Il ragionamento deve partire dalla considerazione che il vizio di costituzionalità dell'art. 17 del d.l. n. 95 del 2012, come convertito dalla relativa legge di conversione, riguardando un atto con forza di legge, può essere accertato soltanto dalla Corte costituzionale.

Ciò significa, in primo luogo, che un'impugnativa diretta è consentita unicamente alle Regioni, sotto il profilo che l'illegittima procedura previsto dal decreto-legge menoma la competenza consultiva regionale e, ledendo le prerogative degli enti territoriali in cui la Regione si articola, implica necessariamente anche un'ulteriore lesione delle competenze regionali costituzionalmente garantite. Un tale ricorso diretto deve essere proposto dinnanzi alla Corte costituzionale, a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla pubblicazione (avvenuta il 14 agosto 2012) della legge 7 agosto 2012, di conversione del decreto legge.

Ogni altro soggetto, invece, deve invece assoggettarsi ad una procedura più articolata, instaurando dinnanzi al giudice amministrativo - posto che si tratta di atti di pubblici poteri - una controversia nella quale possa essere tale giudice a sollevare la questione di costituzionalità.

A questi fini è peraltro necessario individuare un atto scaturente dalla procedura in esame, che possa dirsi, da un lato immediatamente lesivo della posizione del soggetto interessato alla declaratoria di illegittimità, ma anche, dall'altro lato, adottato in applicazione di quella parte della disciplina del decreto-legge che appare in contrasto con la disciplina costituzionale. Entrambi i presupposti sono infatti necessari perché la questione, anche se per la via indiretta che si è descritta, possa essere portata dinnanzi alla Corte.

Nell'ambito di questi atti, la delibera che il Consiglio dei Ministri ha adottato lo scorso 20 luglio al fine di stabilire i requisiti di dimensione e di popolazione che le Province dovranno possedere all'esito dell'operazione di riordino, ha certamente un contenuto immediatamente lesivo della posizione di tutte le amministrazioni provinciali che non raggiungano i requisiti minimi prescritti, ma tuttavia non sembra potersi definire con altrettanta certezza come emanata in applicazione di quella parte del decreto legge che appare direttamente in contrasto con l'art. 133 della Costituzione. E difatti bisogna ricordare, a questo riguardo, che si tratta di far valere dinnanzi alla Corte costituzionale un vizio attinente al procedimento di riordino, ed essenzialmente relativo alla scelta deliberata dell'art. 17 in esame - in deroga al procedimento costituzionalmente conforme previsto dal TEUEL - di non considerare necessaria l'iniziativa comunale prescritta dall'art. 133 della Costituzione.

Appare quindi logico non procedere all'impugnativa della predetta delibera, salva una valutazione svolta precipuamente sul piano dell'opportunità politica, e sulla base della condotta degli altri soggetti interessati.

Per questi motivi - con tutte le cautele derivanti dal piano ipotetico del ragionamento - sembra più appropriata la soluzione, ai fini che si perseguono, di procedere piuttosto all'impugnativa della "ipotesi di riordino" adottata dal Consiglio delle Autonomie locali, poiché non sembra dubbio che si tratti esattamente del'atto che l'art. 17 prevede, per così dire, in sostituzione o in surroga dell'iniziativa dei Comuni. Ne deriva un vizio di costituzionalità del relativo provvedimento amministrativo, vizio che si deve definire come "indiretto", in quanto discendente a sua volta dal vizio di legittimità dell'art. 17, nella parte in cui prevede, in violazione dell'art. 133 della Costituzione, l'intervento nel procedimento del CAL in luogo di quello dei Comuni interessati.

Un'analoga impugnativa, in caso che il CAL non si pronunci, sembra poter essere rivolta anche nei confronti della proposta regionale.

Anche in questo caso sotto il profilo che tale proposta viene formulata - sempre in applicazione dell'art. 17 - in difetto dell'iniziativa dei Comuni, che costituisce infatti il presupposto, ai sensi dell'art. 133, per il parere della Regione interessata.

In queste ipotesi, il ricorso dovrebbe contenere un'istanza di sospensione dell'atto impugnato, per consentire al giudice di sollevare immediatamente, in sede di tutela cautelare, la questione di costituzionalità, anche prescindendo dalla rigorosa verifica delle condizioni dell'azione, che invece è propria della sede di merito.

In entrambi i casi, comunque, non sembra che debba essere d'ostacolo all'ammissibilità il fatto che si tratti di atti endoprocedimentali, in quanto, secondo la giurisprudenza prevalente, ai fini dell'onere di immediata impugnazione conta non tanto la collocazione dell'atto all'interno del procedimento, quanto il fattore della lesione che esso arreca all'interesse sostanziale del ricorrente {cfr. Consiglio di Stato, sentenza 31-12-2007, n. 6788), con la conseguenza che, l'impugnazione dell'atto negativo, anche se endoprocedimentale, costituisce comunque una facoltà per il destinatario (Cons. Stato, sez. IV, 20 giugno 2012, n. 3607).

Certo, rimane vero il fatto che, nella procedura prevista dall'alt. 17 del decreto-legge in esame, sia l'ipotesi di riordino da parte del CAL sia la proposta regionale sono disciplinati come atti soltanto "eventuali", posto che la loro mancata deliberazione non impedisce al Governo di esercitare l'iniziativa per l'atto legislativo di riordino delle Province.

Nel caso in cui tali ipotesi dovesse realizzarsi, la tutela giurisdizionale da preventiva dovrebbe farsi necessariamente successiva, impugnandosi dinnanzi al giudice gli atti esecutivi della disciplina legislativa contenente il riordino delle Province.



10. — In conclusione, deve dirsi che l'art. 17 del decreto-legge n. 95 del 2012, come modificato dalla relativa legge di conversione, introduce un procedimento di revisione delle circoscrizioni provinciali che appare a prima vista suscettibile di sollevare gravi dubbi di costituzionalità sotto diversi profili.

In primo luogo, sotto il profilo formale, per quanto attiene alla fonte scelta dal Governo, in quanto, secondo la più recente giurisprudenza costituzionale, lo strumento del decreto legge non può venir utilizzato nei casi di evidente mancanza dei presupposti della necessità e dell'urgenza del provvedere, e neppure può venir utilizzato per far confluire in un unico atto una serie eterogenea di provvedimenti non collegati realmente fra loro sotto il profilo della materia trattata.

In secondo luogo, sotto il profilo sostanziale delle relative disposizioni del decreto, perché non sembra sussistere alcuna plausibile giustificazione per la palese difformità fra il procedimento di riordino previsto dal decreto legge e la ben diversa procedura di modifica dei territori delle Province stabilita in Costituzione. In questo senso può essere opportuno ricordare ancora una volta come ben più aderente al dettato costituzionale è il cennato procedimento previsto dal TUEL.

Sembra quindi possibile fin da ora ritenere, con riferimento alla tutela giurisdizionale avverso gli atti del procedimento, che un eventuale giudizio davanti alla Corte costituzionale, nei modi e nei tempi consentiti, abbia significative possibilità di successo, anche se non si possono sottovalutare le prevedibili implicazioni problematiche connesse alla generalizzata situazione di emergenza che il Governo negli ultimi mesi regolarmente invoca a fondamento della propria, ripetuta attività normativa in via di urgenza.



Nei termini riferiti rendo dunque il richiesto parere.





Roma, 17 settembre 2012



Prof. Avv. Piero Alberto Capotosti


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